martedì 29 aprile 2008

La Straniera d'Inverno (parte 3)


D: Sappiamo che in questi giorni, dopo una lunga pausa, lei e Diana Gabbaldon avete finalmente ripreso a lavorare alla stesura de "La Straniera d’Inverno"
PS: Sì…

D: Avete dunque risolto le note divergenze che l’hanno portata ad afferrare per i capelli la sua collega, in occasione di un noto evento mondano, trascinandola poi tra i tavoli urlando a squarciagola "sei solo una patetica baldracca…"?
PS: in un certo senso. Ed anzi vorrei cogliere l’occasione per scusarmi col pubblico che ha assistito a questo imbarazzante episodio. Sono davvero mortificata per aver perso il controllo in quel modo, ma ero davvero esasperata.

D. Può spiegarci perché?
PS: Vede, scrivere un romanzo pervaso di sentimenti così profondi e viscerali, non è mai facile. E’ come, scavare nel proprio utero, capisce?

D: Non tanto, sa, essendo uomo ne sono alquanto sprovvisto, ma forse le nostre lettrici, capiranno…
PS: Loro capiranno. E… come dicevo, è un’operazione talmente devastante, che può portare a momenti di profondo stress.  E’…un’operazione che non mette a nudo solo la tua anima, ma anche i tuoi desideri più reconditi. Arriva un momento in cui sei sola con te stessa, ti vedi nuda di fronte all’infinito, ed il più delle volte ti accorgi di una nuova smagliatura o di una ruga che il giorno prima non c’era, e ti incazzi come una iena. Come intuirà si tratta di una cosa già di per sé devastante , ma se quest’operazione di "scavo" viene fatta cercando di mediare tra il tuo mondo interiore e quello di un’altra persona, le cose possono complicarsi. All’inizio sembrava che Diana ed Io potessimo narrare un comune "sentire" in una storia omogenea, struggente e meravigliosa, ma poco a poco sono emerse delle differenze, prima solo formali e poi sostanziali, che ci hanno portato a percorrere, per così dire, sentieri diversi, all’interno dello stesso romanzo…

D: E come avete fatto?
PS: E’ proprio questo il punto. Non abbiamo fatto. Abbiamo cominciato logoranti discussioni che non portavano a niente. Io volevo che il "mio" Alexander portasse a termine il percosso iniziato nei romanzi precedenti, diventando devinitivamente L’UOMO per eccellenza. Colui che ogni donna vorrebbe avere nel proprio letto. Lei pretendeva che questo ruolo spettasse al suo MacKeron, cosa impensabile, ovviamente. Alla fine, per cercare di andare avanti, abbiamo provato a dividerci i personaggi… ma ci siamo rese conto che così la vicenda si separava nettamente in due, ognuna di noi  portava avanti la propria storia… era ridicolo, come impaginare insieme due romanzi diversi. Allora abbiamo provato a scrivere a capitoli alternati, solo che quello che io facevo succedere nel primo, lei lo disfaceva nel secondo. Infine abbiamo provato a dividerci i sostantivi, gli aggettivi ed i verbi. Ma il risultato, se possibile è stato anche peggiore… e dava origine ad una prosa senz’altro originale, ma il più delle volte troppo ermetica. Nel frattempo accumulavamo stress. E continuavamo a cambiarci a vicenda le storie… lei faceva dire a Lidia che MacKeron era l’uomo più virile mai incontrato, ed io facevo aggiungere che però Alexander era, se possibile, ancor più bello. Allora lei chiosava con un commento contrario e quella che doveva essere una scena di due righe diventava un capitolo di battibecchi. Così, al Gran Gala del Rosa in Prosa, quando ho detto che per me i fagioli erano un po’ salati, e lei mi ha corretto dicendo che, invece, li trovava gustosissimi, non ci ho visto più, l’ho vista come un suo ennesimo ed intollerabile tentativo di intrusione nel mio territorio e così l’ho afferrata per i capelli…

D: Capisco…
PS: Sono ancora mortificata (lo dice con uno strano sorriso compiaciuto NdR)

D: E com’è stato possibile ricomporre la situazione tra voi due dopo una lite così dura e per di più così "pubblica"?
PS: Beh sa… per questo romanzo ci danno una barca di soldi… alla fine, ti dai un pizzico sulla pancia ed anche se quello che scrivi ti fa schifo, chissenefrega. Del resto, anche i miei romanzi precedenti erano delle boiate…

D. Ma come, e lo scavo nell’utero nuda davanti all’infinito e tutte quelle belle parole di prima?
PS: Ma sì, ma sì, sono cose che si dicono, però la verità è che sempre di un romanzetto rosa si trattava… sa, per gratificare l’immaginario femminile.

D: quindi questa è l’opinione che ha delle sue lettrici?
PS: Non mi fraintenda, io amo le mie lettrici. E… condivido le loro pene. Vede, di questi tempi, già farsi una bella scopata è difficile, si figuri trovare un uomo in grado di farti innamorare… e così, questo tipo di letteratura acquista valore terapeutico… noi donne del secondo millennio abbiamo un’emotività fragile e scompensata che urla per il bisogno di trovare uno sfogo ma che non potendo incanalarsi lungo il giusto percorso, traborda un po’ ovunque creando imbarazzanti pozzanghere. E poiché uomini non ce ne sono, ce li andiamo a trovare nei libri. Forse, l’unica riserva che posso avere, è che bisognerebbe spiegare ad alcune delle mie lettrici più affezionate che pur leggendo il libro anche 50 volte, né Alexander né MacKeron usciranno da quelle pagine (sospira NdR)… perché uomini così non esistono… e noi siamo destinate ad una solitudine fisica e sentimentale... sigh...  meno male che esistono i vibratori…

D: Sì… ehm (colpo di tosse imbarazzato) quindi ritiene che riuscirete a finire questo romanzo entro l’anno?
PS: Se quella cagna la smette di rompere, sì.. del resto (solo adesso noto che sta giocherellando con un ciuffo di capelli NdR) dovrebbe aver capito la lezione…

D. Questi sono della Gabaldon?
PS: Un souvenir…

D: Bene allora, signora Simonns… è stato un vero piacere.
PS: Anche per me… torni quando vuole, a proposito…

D: Sì?
PS: Intervisterà anche la cagna?

D: Ehm… non so, sa dipende dal direttore del giornale, cioè… ecco…
PS: non si preoccupi, era solo una domanda così… le posso offrire un tè?

Nota dell’editore: il presente articolo viene pubblicato in memoria del suo autore Rick Tuck, stranamente scomparso subito dopo aver registrato quest’intervista.



(Si ricorda che dove non specificato diversamente, i contenuti di questo blog sono regolati dalla vigente legge sul diritto d’autore)

mercoledì 23 aprile 2008

UCCELLI

 (si consiglia la lettura ad un pubblico adulto vm18)

Il suo cazzo aveva uno strano sapore.
Ci pensava ogni volta che scopavano, ma poi si faceva prendere dalle varie cose - e c’è da dire che in questo Peter era molto bravo - e la storia del sapore passava in secondo piano. L’importante era soprattutto superare l’impatto iniziale. Anche perché poi, a furia di succhiarlo, era un po’ come se quel sapore si diluisse… per fortuna.
La cosa peggiore, probabilmente, era l’attesa.
Prima che finissero a letto, ogni volta, Susan continuava a vivere con una parte del suo essere in tensione, in attesa di quel momento. Domandandosi per tutto il tempo se e quando Peter le avrebbe chiesto di prenderlo in bocca.
Tutto questo, inutile dirlo, le toglieva parte del piacere, ma non sapeva come risolvere la questione, e si chiedeva se il problema fosse suo oppure di Peter. Anche perché non è che Susan ne avesse provati molti… di uomini.  Era ancora molto giovane, e Peter era la prima storia importante. Il primo che avesse succhiato.
No, cioè, ce n’erano stati altri due, prima, ma nel primo caso era ubriaca e non ricordava niente. Nel secondo, aveva una mentina in bocca e questo, in qualche modo, aveva falsato l’intera faccenda. Non c’era modo di sapere se anche gli altri due avessero lo stesso sapore orribile e non era uno di quegli argomenti che tiri facilmente in ballo con le amiche.
Aveva pensato di buttarla lì, casualmente, durante il the delle cinque… "A proposito, ma i cazzi hanno tutti lo stesso sapore?"
Ma poi, ogni volta, si rendeva conto che non poteva. Immaginava la faccia scandalizzata di Lizzy. O, peggio ancora, quella di Margie, prima velata di un rossore diffuso, mentre il liquido appena sorseggiato le andava di traverso, e poi contorta nell’atto di spruzzare il the sul tavolo, momentaneamente trasformata in una specie di fontana. No, non poteva prorio.
Era necessario trovare un’altra soluzione. Ma cosa? Provarne un altro era fuori discussione. lei amava Peter, non poteva succhiare quello di un altro, foss’anche col solo intento di effettuare una ricerca comparata sui sapori dei membri maschili e quindi senza alcun fine godereccio.
Ripensando alla storia della mentina, aveva allora provato a suggerire a Peter variazioni sul tema, con nutella, panna… l’aveva buttata sul bisogno di trasgressione per non dovergli rivelare che il suo cazzo aveva un sapore schifoso. Ma da quel punto di vista, manco a farlo apposta, Peter aveva scoperto di essere un tradizionalista. Gli piaceva la lingua di lei al naturale… ed ogni volta, Susan, ritornava a casa con quel po’ di insoddisfazione e quello strano sapore in bocca.
Poi, un giorno, tutto le fu chiaro.
La rivelazione arrivò nel modo più imprevisto: in campagna, durante uno dei soliti weekend a casa di zio Gerard.
Susan odiava le gite in campagna, odiava la natura col suo aspetto oltraggiosamente sano e, soprattutto, odiava lo zio Gerard ed il suo modo fastidioso di ridere per ogni fesseria. Il suo vocine rimbombante, nel silenzio della campagna, poteva arrivare a chilometri di distanza.
Un’esperienza devastante per una come lei, che amava le cose sussurrate, i mezzi toni tendenti al grigio, e le cornici di cemento a limitare l’invadenza del cielo troppo azzurro.
Eppure, in quell’occasione, l’insopportabile weekend si rivelò determinante, perché le consentì di capire.
perniciTutto successe a causa della passione di zio Gerard per la caccia.
Lui ne era un vero cultore. Pernici in genere, ma anche fagiani se capitava. Lui diceva che un giorno sarebbe andato in africa a cacciare leoni. Lo diceva convinto, ma non ci credeva nessuno e nessuno si sentiva di spiegargli che avrebbe dovuto decidersi un secolo prima, perché ormai, ameno di non trasformarsi in un bracconiere, non avrebbe mai potuto sparare al re della foresta. Lui lo diceva, generalmente alla seconda bottiglia di vino, e fondamentalmente nessuno lo cacava che, come tutti avevano scoperto, era il miglior modo per far funzionare queste riunioni familiari: ignorandosi.
Comunque, tra le tante fissazioni di zio Gerard, c’era quella che la cacciagione va frollata. Lui si riteneva il massimo esperto del gruppo, ma non capiva un accidente e frollava tutte le prede allo stesso modo. 5 -6 giorni. Che per un fagiano va benissimo, ma per una pernice no! E quell’estate, in particolare, faceva davvero caldo. Non sembrava neanche di stare nello Yorkshire, sembrava di stare in tunisia, tanto era caldo.
E zio Gerard aveva cacciato pernci, manco a farlo apposta.
Pernici appese alla veranda come macabri trofei, in attesa della giusta frollatura.
Non era stato facile fingere allegra normalità se, ogni volta che si usciva sul patio, si doveva fronteggiare quell’improvvisato patibolo avicolo e far finta di niente.
Comunque, fu quella sera, a cena, che arrivò la rivelazione.
Pernici troppo frollate e poco cotte.
Già l’aspetto era quello che era, ma quando Susan mise in bocca la prima forchettata, sentì subito un inconfondibile sapore di marcio con il  retrogusto dolceamaro della carne ormai prossima alla decomposizione.
Fu più forte di lei: sputò subito tutto nel piatto e saltò in piedi esclamando: "Cristo… il cazzo di Peter!"




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domenica 20 aprile 2008

Conversazioni teologiche

- sai a cosa stavo pensando?
- no dimmi.


- al big bang...
- e...?


- secondo me il big bang è stato il primo orgasmo di dio.
- cosa?


- sì, pensaci... lui ha esploso nel vuoto questo suo immenso, primo, violento orgasmo e... ha creato ogni cosa. Poetico no?
- non saprei... voglio dire, e cosa stava facendo, si stava masturbando o cosa?


- ma che importanza vuoi che abbia? Lui era dio, poteva fare quel che gli pare...
- e quindi noi cosa saremmo? Il frutto di una mistica sega divina?


- non stare lì a farti troppe domande, dimmi solo cosa ne pensi.
- beh, penso che questa è una delle poche occasioni in cui sono contento di essere ateo...

Preghiera

Ho pensato ad una nuova preghiera per te, dio, ascoltala e dimmi se ti piace:

dio, ti prego, fingi di esistere.

Fingi di esserci quando sarò così terribilmente fottuto di paura al pensiero di morire, un giorno, che non riuscirò a chiudere gli occhi per dormire. Quando l’idea di scomparire nel nulla mi farà torcere lo stomaco ed avrò bisogno di credere che ci sia qualcosa, dopo la morte… qualsiasi cosa, per non restare lì, immobile, paralizzato dal terrore.

Fingi di esserci, dio, quando i miei sensi di colpa saranno diventati insopportabili e proverò così tanto schifo di me stesso, da aver bisogno di credere che ci sia davvero qualcuno che abbia il potere e la voglia di assolvermi dai miei peccati, perché io da solo non ce la faccio,

Fingi di esserci, dio, quando guardandomi intorno mi sembrerà che niente di questa stupida vita abbia un senso ed avrò bisogno di credere che da qualche parte ci sia qualcuno in grado di darlo un senso, alle guerre, alle malattie, alle morti ed anche agli amori sì, perché in certi momenti non riesco a capire a che cazzo serva amare, se poi tutta questa meraviglia di sentimenti, di palpiti e di emozioni deve sciogliersi nel tempo e scomparire… per sempre.

Fingi di esserci, dio, quando l’idea che tutto debba scomparire senza lasciare tracce, mi farà incazzare davvero. Quando il pensiero che tutti gli sforzi, tutto il sudore tutta la fatica, ma anche tutte le gioie, tutte le risate, tutti i sospiri… siano destinati ad esistere solo per un attimo, per poi scomparire, tanto da farmi dire, tra me e me: “ma chi cazzo me lo fa fare?”

Fingi di esserci, cazzo! Fingi di essere lì, accanto a me, dio, quando dovrò guardare i miei figli negli occhi e rispondere alle loro domande sulla vita e sulla morte. Perché loro sono solo bambini, dio, lo capisci? Loro ci credono ancora che la vita possa avere un senso. Ed io che posso rispondergli se tu non fingi di esserci, almeno per un momento? Che posso dire a quegli occhioni pieni  di speranza, se non che… qualcosa c’è… qualcosa di vago, di mistico di meraviglioso, che ci attende oltre l’infinito? Cercando di dare alle mie parole un suono convinto anche se, in realtà, so benissimo che sto mentendo.

Fingi di esserci, dio, e se lo farai bene, se saprai raccontarla questa menzogna in modo credibile, allora, forse, io riuscirò a fingere di crederci…

sabato 19 aprile 2008

Lost - intervista a jj abrams e damon lindelof

Tra le innumerevoli serie televisive degli ultimi anni, quella che maggiormente è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica tanto da meritarsi di essere considerata LA SERIE per eccellenza, dando origine ad un vero e proprio fenomeno mediatico di culto (basti pensare  agli innumerevoli blog e forum ad essa dedicati) è senz’altro Lost.
Un rapido sguardo agli innumerevoli premi che ha già rastrellato, ci dà subito la misura del suo successo:
2004 - Family Television Awards: Best New Series
2004 - American Film Institute - Top 10 TV Programs of the Year
2005 - Visual Effects Society Awards: Outstanding Supporting Visual Effects in a Broadcast Program
2005 - The International Press Academy and The SATELLITE™ Awards: Best Actor in a Series, Drama: Matthew Fox
2005 – La Settimana Enigmistica – La serie più oscura ed enigmatica dell’anno.
2005 – WC International – World Contest : Miglior assortimento di gnocche su un’isola.
2006 – L’inserimento della coppia di personaggi più inutili in una serie: Nikki e Paulo.

Per i pochi poveri ed inutili individui che ancora non sappiano di cosa stiamo parlando, diciamo che Lost è divenuto negli Stati Uniti un cult che ha frantumato ogni record raccontando le avventure di 48 scampati ad un disastro aereo, che devono riuscire a sopravvivere su un’isola, solo apparentemente deserta, prendendo drammaticamente atto del fatto che, molto probabilmente, nessuno verrà mai a cercarli. Soli contro le loro paure e le loro incertezze, dovranno affrontare i dubbi e i terribili misteri che l’isola nasconde. E sono proprio questi misteri la carta vincente di Lost. Le domande insolute che ogni puntata pone, formano una inquietante piramide di interrogativi che soggioga lo spettatore portandolo a perdersi dietro innumerevoli congetture nel tentativo di dare una spiegazione che, diciamocelo pure, non arriva mai. 
Il pregio maggiore della serie, dunque, è anche il suo peggior difetto, perché questo susseguirsi di domande senza risposta, alla lunga rischia di stancare. Tanto che, adesso (in america siamo alla settima puntata della quarta serie), cominciano anche a girare un po’ i coglioni. Inchiodati allo schermo, in fremente attesa non dico della spiegazione definitiva di tutti i misteri (nessuno pretende tanta grazia), ma almeno di un piccolo contentino, orde di fans macerano in un’attesa impotente e solo i più decerebrati continuano a gridare ancora al capolavoro mentre i più seguono giusto per vedere dove cavolo gli autori abbiano deciso di andare a parare. Mentre un dubbio inquietante fa capolino nelle menti di tutti noi: ma gli autori, avranno una vaga idea di cosa stanno scrivendo?

Una nostra inviata che ha il giornalismo del sangue (ma che è anche una discreta mignotta, il che in questo mestiere aiuta sempre), ha così deciso di affrontare i due principali autori della serie J.J. Abrams e Damon Lindelof, per scoprire i loro più oscuri segreti ed offrire, finalmente, qualche seria anticipazioni a migliaia di telespettatori smaniosi.
La nostra eroina si è finta dunque una danzatrice del ventre ed ha adescato i due scrittori in un locale malfamato, agitandogli le proprie generose rotondità davanti al naso per quasi due ore, mentre un barista prezzolato versava nei loro bicchieri quantità smodate di gin, vodka, whisky, amaretto di saronno, zabov, vov, amaro lucano, alcol denaturato e vetriolo, tanto per abbassare la loro soglia razionale.
Quando i due erano ormai cotti a puntino, la nostra inviata ha cominciato l’intervista che siamo orgogliosi di riportare quasi integralmente:
D:        E così voi siete gli autori di Lost…
Abrams:           Oh beh autori…
Lindelof:           Autori è una parola grossa! (e qui i due sono scoppiati a ridere ininterrottamente per 5 minuti ndr)

D:        Perché ridete?
Abrams (biascicando): shhhhhh non si può dire, è un segreto…
Lindelof:           ma tanto l’hanno capito tutti…

 
D:        Cosa?
Abrams:           Shhhhh non si dice…
Lindelof:           Che siamo due peracottari… JJ qui, di televisione non capisce una cippa, ed io ho sempre voluto dipingere, è solo che ’ste due benedette parole sono così simili che le confondo sempre e così al mio primo colloquio di lavoro, invece di presentarmi come scenografo, o detto che ero uno sceneggiatore. Quegli idioti ci hanno creduto ed eccomi qui.

D:        Lost però è una vostra creatura…
Abrams:           Sissignora, si possono toccare queste? (allungando le mani verso le mie tette ndr)
Lindelof:           Si è roba nostra…

D:        Non sembri tanto contento.
Abrams:           Cosa porti? Una quarta abbondante se non erro…
Lindelof:           Il fatto è che le cose si sono un po’ complicate…

D:        Perché?
Lindelof:           Vedi, noi siamo partiti con quest’idea che non era neanche tanto male, una sera non molto diversa da questa. JJ ed io avevamo bevuto di brutto, e ci ballava tutto davanti agli occhi, tanto che JJ (a questo punto lo indica ed Abrams prorompe in un rutto che, ve lo giuro, non finiva più ndr) scherzando, ha detto che gli sembrava di stare su un aereo che precipitava. Sa com’è abbiamo cominciato a ridere su sta cosa… dove potevamo cadere… un’isola. E cosa potremmo trovarci su un’isola… bla bla bla… ed a JJ è venuta l’idea di una serie incentrata tutta sui sopravvissuti di un incidente aereo in cui, alla fine, con un’incredibile colpo di scena, si scopriva che in realtà erano tutti morti…

D:        Ma voi avete più volte dichiarato che quet’ipotesi non corrisponde alla verità.
Abrams:           E dai, fatti dare almeno un pizzicotto.
Lindelof:           E cosa dovevamo fare? A noi quest’idea era sembrata una gran ficata, ma dopo pochi episodi in tutto lo stramaledetto web era pieno di teorie sull’isola purgatorio, etc etc… praticamente ci avevano "sgamato" tutti. Abbiamo dovuto negare per forza…

D:        Mi stai dicendo che in realtà, quindi, sono tutti morti?
Abrams:         E chi lo sa… ormai chi può dirlo (e scoppia a ridere come un ebete ndr). Lo scopriremo solo vivendo… amando… toccando… (allunga di nuovo le mani ed io gli devo mollare un ceffone ndr)
Lindelof:           Ovviamente no… smentita ufficialmente l’ipotesi purgatorio, abbiamo dovuto fare marcia indietro in tutta fretta… e qui sono cominciati i problemi seri.

D:        Che tipo di problemi?
Lindelof:           Beh vedi, noi avevamo seminato tutta una serie di indizi che andava in direzione dell’isola come anticamera dell’aldilà. Dovendo cambiare tutto, si poneva il problema di dare a tutti questi indizi una coerente chiave di lettura alternativa… al contempo, la serie doveva andare avanti, mica potevamo fermarci a riflettere… gli sponsor ci avrebbero "scucito il mazzo" come diciamo noi in gergo.

D:        Quindi che soluzione avete adottato?
Lindelof:           Abbiamo assunto una seconda squadra di sceneggiatori. Mentre la squadra A, condotta da JJ, si concentra sulla prosecuzione della storia, lavorando agli episodi successivi, la squadra B, gestita da me, cerca di rielaborare tutti gli indizi disseminati fino a questo momento per trovare un finale soddisfacente…
Abrams:           Sì ma è tutta una cazzata, non funzionerà mai.

Lindelof:           Avrebbe funzionato egregiamente se tu non fossi una testa di cazzo!
Abrams:           E che dovevo fare? In qualche modo bisognava andare avanti, no? O gli facevo fare i naufraghi normali, mentre tu trovavi la genialata? Senza un po’ di pepe non ci guarderebbe più nessuno!

D:        Percepisco un certo attrito, qual è il problema?
Lindelof:           Il problema è che mentre noi elaboravamo gli indizi, JJ che improvvisamente è diventato un gran creativo, ha continuato a far succedere cose strane nei nuovi episodi. Cose completamente slegate tra loro, effettacci per aver i colpi di scena… apparizioni… fumi assassini, bottoni da pigiare, ed altre cazzate simili. Così, ogni volta che noi della squadra B ci avvicinavamo ad una possibile soluzione, dovevamo fare i conti con un nuovo elemento inspiegabile che ci portava a dover ricominciare tutto daccapo…
Abrams:           Era inevitabile… the show must go on… ehm, ma tu ce l’hai le mutandine?

D:        Quindi adesso cosa pensate di fare?
Lindelof: Attualmente abbiamo inserito una nuova squadra di sceneggiatori che si occupa di fare da raccordo tra la squadra A e la squadra B, prima che la situazione diventi irreparabile… ma la vedo dura.
Abrams:           Damon è un pessimista… va bene così. Faremo un gran casino, ho già una grande idea per confondere tutto inserendo una realtà alternativa, così potremo anche allungare il brodo raccontando parallelamente i due diversi piani esistenziali e poi torneremo al mio finale originale senza che gli spettatori capiscano di essere stati presi per il culo. In fondo il pubblico ha la memoria corta, basta buttar loro fumo negli occhi…

Lindelof:           Non parlare di fumo! Quella è stata una gran cazzata!
Abrams:           Ma che dici? L’idea del fumo spacca!

Lindelof:           Era un mostro ed un mostro doveva restare…
Abrams:           Non capisci niente…

D:        Visto che siamo in argomento… cos’è questo fumo?
Lindelof:           Non ne abbiamo la più pallida idea, qualcosa inventeremo…
Abrams:           Io continuo a dire che l’idea dei fagioli andava bene.

Lindelof:           Ma fammi il favore! Secondo JJ il fumo doveva essere originato dai peti di chi aveva mangiato una particolare scorta di fagioli, oggetto di un esperto alimentare della dharma.

D:        Ma quindi, mi state dicendo che non c’è speranza di avere un finale che chiarisca tutto?
Lindelof:           Ma non lo so. Noi ci stiamo provando, ma la vedo davvero dura. Ormai sono troppi gli elementi inspiegabili che Jj ha schiaffato nella serie…
Abrams:           Ma non è vero! La gente ha la memoria corta, il 50% delle puttanate che ho scritto manco se lo ricordano più, prendi i glifi…

D:        I glifi?
Lindelof:           Un’altra trovata del genio. Nel Botolone che avevano trovato sull’isola c’era un contatore con un pulsante che andava premuto ogni 108 minuti. Non rispettando questo protocollo il contatore impazziva e comparivano dei glifi egiziani… roba senza senso…

D:        Perché proprio dei Glifi?
Abrams:           Ma chissenefrega… perché era fico…
Lindelof:           Inizialmente, dopo lo zero, JJ voleva che comparissero le facce dei Jackson Five, ma trovare poi una spiegazione a questo fenomeno sarebbe stato davvero impossibile ed anche come effetto drammatico faceva un po’ cagare. La seconda opzione era che uscisse la scritta "fuitevenn’" che in napoletano vuol dire scappate. Purtroppo, però, non tutti comprendono l’idioma campano, e questo avrebbe potuto generare sgomento ed incertezza. Nella terza opzione si è pensato di far uscire le scritte bar bar bar (o in alternativa i tre limoni) ma l’unione consumatori ha protestato considerandolo un incitamento al gioco d’azzardo. Dopo aver provato rispettivamente a far uscire le foto dell’ultimo calendario di Selen, le figurine dei calciatori e la ricetta della sacher torte, senza particolare successo, JJ ha pensato di mettere i glifi. Il vantaggio di questi simboli è che ognuno può interpretarli come vuole... in questo modo, qualcuno imbroccherà anche un’interpretazione che possa avere una parvenza di logica...
Manco a farlo apposta, subito dopo si è scatenata un enorme polemica sul significato dei simboli che ha coinvolto anche membri emeriti della comunita scientifica…

Abrams:           Emeriti stronzi (e scoppia a ridere ndr)
Lindelof:           Per esempio, il Prof. Karl Heinz Stubbendorferner, esimio docente di egittologia all’università di Dresda, dopo aver esaminato attentamente i simboli ha detto che, fermo restando che degli egiziani in realtà non abbiamo ancora capito un beneamato accidenti, il messaggio che compare sul timer sembra di una semplicità elementare. L’uccello è un uccello. Il simbolo che lo precede, rappresenta invece un obelisco, e per la precisione l’obelisco oscuro, che in questo caso ha una valenza di privazione o negazione che dir si voglia. L’ultimo simbolo rappresenta la classica lingua biforcuta, che, nella tradizione egizia, sta a significare impossibilità di sentire il sapore dello zucchero. Mentre il primo simbolo, è quello del caffè espresso. Su questa base, pur senza aver potuto identificare il simbolo mancante, il messaggio è ovvio: "Adesso sono uccelli senza zucchero!" o anche "mo’ so’ cazzi amari. In risposta a questa sua asserzione il baronetto Sir Andrew Fitzgerlad MacBurger, ha replicato diffondendo un breve dispaccio in cui sostiene che l’esimio collega tedesco, non è in grado di distinguere un obelisco dal calco del membro di Rocco Siffredi, e che quindi non ritiene degna di rilievo la sua interpretazione. A suo avviso il messaggi va così interpretato: "Papè Satan, Papè Satan aleppe". A questo punto Stubbendorferner, altamente irritato, ha ipotizzato che MacBurger sappia distinguere l’obelisco dal membro di Rocco Siffredi, avendoli provati entrambi più e più volte e da questo momento in poi, la disputa si è spostata su toni difficilmente riportabili su questo Forum.

Abrams:           e l’audience sale!
Lindelof:           e noi invece affondiamo… nella merda!

D:            Non c’è proprio speranza?
Lindelof:   Che devo dirti? Un modo per spiegare tutto ci sarebbe pure... l’ha ideato un reparto di scienziati della Massachusets University, combinando il paradosso temporale, alla teoria della relatività, alla discrepazna quantistica, alle teoria dei reticoli, l’antimateria, l’eugentica vettoriale e la disincrazia ermeneutica, attravreso 7500 pagine di trattato si è giunti a combinare tutti i nostri indizi... ma solo un fottuto genio con 3 lauree potrebbe capire la spiegazione!

D:        Previsioni per il futuro?
Lindelof: (guardandomi con aria smarrita):        io non sono in grado di prevedere più niente. Ho 48 persone che lavorano giorno e notte a questo progetto, ma sai una cosa? La verità è che siamo più persi noi di quegli stramaledetti naufraghi…

 (a questo punto è scoppiato a piangere come un bambino. Abrams invece, ha cercato di sfilarmi gli slip, sbavando come un assatanato ed a questo punto sono dovuta scappare in tutta fretta ndr)

Fine dell’intervista.

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giovedì 17 aprile 2008

Gli occhi dei Vecchi

È una cosa che noto soprattutto quando sono in macchina.
In realtà non è che noti molte cose quando sono al volante. Quando guido, soprattutto in mezzo al traffico, mi trasfiguro in un essere rabbioso e sboccato. È una cosa un po’ imbarazzante, ma è al di là delle mie capacità di controllo, quindi tanto vale rassegnarsi all’inevitabile. Però non è di questo che volevo parlare, non adesso almeno. Quello che voglio dire è, invece, che in alcuni rari momenti di lucidità, mi capita di notare alcune cose ed una di quelle che mi ha sempre colpito è lo sguardo di alcuni anziani alle prese con l’attraversamento della strada.
Uno sguardo spaurito, timido, che si muove da destra verso sinistra quasi implorando le auto di fermarsi o, per lo meno, mi muoversi più lentamente… in modo appena più ordinato. Che diamine!
A volte i loro occhi incontrano per un attimo i miei, quel tanto che basta per restituirmi un po’ di lucidità, ed allora mi dimentico della fretta e delle imprecazioni. Alzo il piede dall’acceleratore e li faccio attraversare. Loro avanzano timidamente. Incerti, come se pensassero "chissà se mi posso davvero fidare di quello lì?", poi guadagnano il marciapiede opposto e, finalmente, si rasserenano.
Quel barlume di gratitudine che compare a quel  punto nei loro occhi fa davvero tenerezza, ma è la paura la cosa che mi resta dentro più a lungo. È quella che  mi fa male.
Non riesco a smettere di pensare che hanno paura, poverini. Hanno paura di fare una cosa così semplice e banale come attraversare la strada. Provate a pensarci un attimo, non è assurdo?
Sono vecchi, certo. Le gambe si muovono più lentamente, la vista si accorcia ed i riflessi non sono più quelli di una volta, ma non è solo questo. Non è una questione di incapacità. È un non riconoscersi nel modo in cui il mondo è cambiato da quando erano ragazzi ad oggi.
Non che prima fosse un paradiso, intendiamoci. È solo che da un certo punto in poi, il mondo ha incominciato a correre, proprio nel momento in cui loro, invece, rallentavano. Ed ora non la capiscono più questa vita così diversa. Ora è tutto un imperversare di automobili, smog, clacson, motorini… che incubo devono essere i motorini per loro, ci pensate?
Chissà se se lo immaginavano così il futuro, quando erano ragazzi?
Chissà se si aspettavano che il mondo si sarebbe trasformato in questo modo e così in fretta?
E poi, inevitabilmente, penso a me. Mi chiedo, chissà con che occhi guarderò io il futuro? Avrò la loro stessa luce spaurita nel mio sguardo? Anch’io mi sentirò uno straniero anche solo a pochi metri da casa ed avrò la stessa sensazione di essere lì per caso… o peggio, per sbaglio?
Probabilmente sì. Perché è difficile pensare che il mondo smetta di correre.
No, lui tirerà dritto per la sua strada, e sarò io ad arrancargli dietro. Sarò io che non riuscirò più a reggere il suo ritmo.
Mi restano solo una manciata di anni e poi anch’io avrò quello sguardo. Ed allora, inevitabilmente, sopraggiunge un altro pensiero a solleticare la mia fantasia. Forse, penso, forse non sarebbe male se ogni tanto tutti noi ci fermassimo e ci guardassimo intorno con gli occhi dei vecchi. Se ci riuscissimo, consapevolmente, fintanto che siamo ancora giovani, anche solo per poco tempo, probabilmente vedremmo le cose diversamente. E a quel punto non so se ci piacerebbe poi tanto il mondo che stiamo costruendo. Forse, se riuscissimo a guardarlo con gli occhi degli anziani, forse (dico solo forse) riusciremmo a fare qualche sbaglio in meno, e lasceremmo un’eredità meno spaventosa ai nostri figli…
Ma questi strani pensieri fanno appena in tempo ad affacciarsi alla mia mente che già il vecchietto ha raggiunto il marciapiede e scompare tra la folla. Le auto dietro di me cominciano a rombare la propria impazienza, io affondo il piede sull’acceleratore e riprendo la mia corsa, dimenticando tutto il resto.
Lo sguardo dei vecchi non riesce a seguirmi oltre il prossimo incrocio e la mia coscienza è troppo pigra per fermarsi a riflettere… ma sapete una cosa? È un vero peccato…

martedì 15 aprile 2008

Sete

L’uomo è accucciato sulla sabbia, con la schiena appoggiata al bordo liscio di una pietra.
Sta lì fermo, cercando inutilmente di nascondersi in quei pochi centimetri d’ombra. Si vede chiaramente che non ce la fa più… non riesce neanche a guardarmi.
L’uomo ha lasciato una lunga striscia di sé, nella sabbia… una striscia che si perde nel riverbero del calore che sale dal terreno distorcendo il mondo, tutt’intorno a noi. Una scia che si perde tra le dune per non so quanti chilometri. A pensarci bene è incredibile che sia arrivato fino a qui.
Per prima cosa si è trascinato fino ai resti del pozzo. Ha scavato con le mani fino a spezzarsi le unghie, ma tanto, acqua qui non ce n’era più da almeno vent’anni. Lui, però, questo non lo sapeva. Ha scavato, quindi, disperatamente. E quando ha visto che l’acqua non c’era ha provato anche a bere la sabbia. Poi, sconfitto, si è trascinato verso il pezzo di roccia, verso quello sputo d’ombra che non basterà a salvargli la vita,  e si è raggomitolato come un serpente.
Finalmente si accorge di me. Farebbe meglio a risparmiare le forze per restare attaccato a quel po’ di vita che gli resta, ma tanto… probabilmente sa di essere condannato, e quindi parla.
«Non ce n’è di acqua…» dice.
Questo già lo sapevo.
«L’aereo è caduto da quella parte…» fa un vago gesto con la mano «due giorni fa».
So anche questo.
«All’inizio eravamo in tre» continua l’uomo. «Gli altri due sono morti ieri. Io ho resistito di più, forse perché sono grasso…» vorrebbe ridere ma riesce solo a tossire. «Si dice che il nostro corpo è composto per il 70% d’acqua, quindi probabilmente ne avevo di più… dentro di me.  Per questo ho resistito. Ma ormai l’ho consumata tutta, credo…» alza faticosamente una mano e se la passa sulla fronte, poi si guarda i polpastrelli distrutti dal terreno in cui ha cercato di scavare fino a poco prima, ma asciutti, proprio come tutto ciò che lo circonda. «Guarda che roba… non sudo neanche più».
Sospira sfinito. Per un po’ resta così, abbandonato contro la roccia, senza riuscire a dire più niente. Se non fosse per il debole movimento del torace sembrerebbe davvero morto. Poi riprende a parlare.
«Tu sai cos’è la sete?» mi chiede.
Io questo non lo so. La sete l’ho  vista, ed ho visto che effetto fa, ma non so cos’è.
«Allora te la racconto io…» dice  «la sete è un fuoco senza fiamma. È un fuoco arido che parte dal cervello, e diventa un pensiero fisso. Martellante… ossessivo… che non ha mai fine e che satura tutto, quello che vedi, quello che tocchi, quello che senti… e non c’è scampo. Da nessuna parte, fino a che non avrai bevuto. Basterebbe una goccia d’acqua, ti dici, basterebbe una fottutissima goccia d’acqua… basterebbe anche solo l’odore dell’acqua, e sarebbe diverso. Ma l’acqua non c’è… non c’è e basta. E tu senti che il corpo si contrae e avvizzisce. La pelle si ritira e si spacca. La lingua diventa una specie di… di cosa, informe e grossa, nella tua bocca, che vorresti sputare via, perché ti impedisce di respirare e di parlare. Ma tanto che te ne fotte di parlare… o di respirare? Tu vuoi solo bere… e quel cazzo di sole, nel cielo. Caldo… che dio lo strafulmini. Lo so che non è colpa sua, il sole fa quello che deve fare, ma… oggi tra le tante cose, mi sta anche ammazzando… normale che non mi stia tanto simpatico, no?»
E’ brutta la sete, gli dico, infine.
«Già» risponde.
Basterebbe un po’ d’acqua… sussurro.
«Anche solo poche gocce…»
Sai qual è la cosa buffa? Gli chiedo.
Lui mi guarda con stanca curiosità.
La cosa buffa è che qui un pozzo c’era. Gli dico. Bastava poco per rimetterlo in sesto e l’acqua l’avresti trovata…
«La mia solita fortuna…» dice l’uomo.
Due anni fa, gli dico, giorno più giorno meno… ti hanno chiesto di aderire ad un progetto per scavare pozzi in questa regione.
«Eh?»
Due anni fa, giorno più giorno meno, hai detto di no, che i soldi ti servivano per altre cose più importanti. Due anni fa, giorno più giorno meno, hai scelto di far morire un sacco di gente, fregandotene. Quello che non sapevi… è che uno di quelli che sarebbero morti di sete, qui, saresti stato tu…
Lui mi guarda con più attenzione adesso. Sta cercando di capire se sono una sua allucinazione… come pensava all’inizio, o qualcos’altro. Poi, probabilmente, si rende conto che, tutto sommato, non ha importanza, e comincia a ridere. A ridere sempre più forte, con lo sguardo velato da un barlume di follia che si spegne, poco a poco, insieme a lui.
Quando smette di ridere, me lo porto via. Come ho già fatto con tutti gli altri e come continuerò a fare fino a che qualcuno non scaverà di nuovo il pozzo, portando un po’ di vita anche qui.
Tra chissà quanto tempo...


Nota: ho scritto questo raccontino di getto, dopo aver visto i rezophonic in tv parlare del loro progetto. Era sabato, il giorno dopo, domenica, i negozi erano chiusi. Lunedì, sono andato a comprare il loro cd. Penso che lo dovrebbero fare tutti. Anche quell iche non hanno in programma viaggi in africa.  Per chi non lo sapesse, tutto il ricavato della vendita di questo disco andrà a sostenere il progetto idrico di AMREF, (Fondazione Africana per la medicina e la ricerca) che ha come scopo la realizzazione di pozzi d'acqua con il coinvolgimento delle popolazioni locali. fateci un pensierino...


(Si ricorda che dove non specificato diversamente, i contenuti di questo blog sono regolati dalla vigente legge sul diritto d’autore)

Musica, parole... e culi: intervista a Dario Carraturo

D:        Allora, signor Carraturo, in più di un'occasione lei ha dichiarato che senza musica non saprebbe vivere, la domanda quindi è quasi d'obbligo: cos'è per lei la musica?
R:         Oh… ecco, mmmh… bella domanda.


D:        Ci dia una bella risposta, allora…

R:         Vediamo… potremmo dire… (esita con lo sguardo perso nel vuoto ndr)

D:        Coraggio, lo dica pure con parole sue.
R:         Spiritoso. Non lo so, la prima cosa che mi viene in mente?

D:        Spari.
R:         Allora diciamo che la musica è una di quelle cose per cui vale la pena vivere.

D:        Accidenti…
R:         Eh sì.

D:        Una cosa importante allora.
R:         Abbastanza.

D:        Vogliamo chiarire il concetto?
R:         Se non se ne può fare a meno…

D:        Chiariamo che è meglio. Si fidi…
R:         Ok allora mettiamola così: immaginiamo per un attimo che non ci sia assolutamente niente dopo la morte…

D:        Che pensiero deprimente.
R:         Assolutamente, ma è solo per fare un esempio. Voglio dire, io mi auguro fermamente che non sia così. Ci spero in qualcosa dopo la morte… qualsiasi cosa. Ma, ipotizziamo, invece, che con la morte finisca tutto…

D:        Ok… in questo caso direi che sarebbe una bella fregatura.
R:         Esatto. E la prima cosa che viene naturale chiedersi è: ma a che serve allora tutto questo… vivere? A niente! Tanto dopo una manciata di anni finiamo per dissolverci nel nulla, no?

D:        Vabbè passiamo alla seconda domanda?
R:         No no… arrivo subito al punto. Quando mi prendono questi pensieri, come ha detto giustamente lei, un po' deprimenti, la risposta vagamente consolatoria che riesco a darmi è che comunque, per quanto destinato eventualmente (ma speriamo di no) a scomparire. Ci sono alcuni momenti, ed alcune cose, nella vita, che anche se non sono in grado di dare un vero e proprio senso al tutto, lo rendono, se non altro, degno di essere vissuto. Una di queste cose, secondo me, è la musica…

D:        Lei è un vero ottimista.
R:         Me lo dicono tutti.

D:        E perché, tra tutte le forme d'arte, proprio la musica?
R:         Boh, non lo so. Perché mi entra subito in circolo, probabilmente. Ho sempre avuto un legame piuttosto stretto con la musica fin da piccolo. Sa, mio padre era tenore e mi portava in turnè con lui. Sono cresciuto a botte di Tosca, Lucia di Lammermoor, Trovatore etc etc… Di base sono abituato ad essere accompagnato sempre da una colonna sonora, capisce? Il silenzio non mi è congeniale. E poi, riflettendoci, credo che ci sia un legame abbastanza forte tra quello che faccio io, cioè scrivere… e fare musica.

D:        In che senso scusi?
R:         Beh ci pensi un attimo… lo scrittore cos'è se non un musicista delle parole?

D:        Oddio, questa frase a effetto se l'era preparata in anticipo, lo ammetta.
R:         No no… giuro. Mi è venuta fuori in modo estemporaneo, ma più ci penso e più mi convinco che è così. Mi segua…

D:        Dove?
R:         Nel ragionamento…

D:        Ah certo! Scusi…
R:         Allora: una singola nota, presa a sé stante, non rappresenta niente, giusto? E' solo una nota! Do… Mi… un suono senza un perché. Ma nel momento in cui prendi quella singola nota e la metti insieme ad una manciata di altre note, e lo fai nel modo giusto… crei musica.

D:        Sì, mi sembra abbastanza corretto.
R:         Beh, con le parole è lo stesso. Prendi una sola parola e non vuol dire niente. Ma se la combini nel modo giusto con altre parole…

D:        Fico questo parallelo…
R:         Grazie. Quindi, come vede… un musicista ed uno scrittore fanno la stessa cosa.

D:        E lei è…?
R:         Uno scrittore!

D:        Sì certo, mi scusi.
R:         Comunque, alla fine tutto questo non c'entra un tubo con la domanda che mi ha fatto, era solo per chiarire che sento istintivamente un legame abbastanza intenso con chi fa musica. E quando le note sono quelle giuste, mi emoziono sempre.

D:        E a parte la musica?
R:        Eh?

D:        C'è qualcos'altro per cui vale la pena vivere?
R:         Uh… sì certo. Voglio sperare di sì. Un mucchio di cose…

D:        Per esempio?
R:        Beh… tanto per fare un esempio, il primo bacio ad occhi chiusi. E' uno di quei momenti che hanno un certo "significato"… e poi… anche la prima volta che… insomma ha capito no? Quella prima volta lì… sempre che sia venuta bene, altrimenti la seconda. Poi, tenere il proprio figlio tra le braccia, assolutamente. Ed anche la prima volta che ti si addormenta addosso… il sorriso della donna che ti ama…

D:        Il primo tramonto o la prima alba?
R:         Anche, per alcuni. Non per me…

D:        Cioè, a lei l'alba… non fa effetto?
R:         No no, naturalmente mi piace. E' bella l'alba, solo che il sole tende a sorgere un po' troppo presto per i miei gusti. Ed il tramonto è un po' troppo scontato… si ripete ogni sera, difficile che possa in qualche modo, sorprenderti. Capisce? Quindi sì… l'alba e il tramonto sono fenomeni gradevoli, ma non li eleverei a momenti in grado di rendere, da soli, la vita degna di essere vissuta.  A meno che non capitino in circostanze particolari…

D:        Uh… la credevo più romantico.
R:         Solo perché scrivo non vuol dire che debba essere così scontato.

D:        Già perché il sorriso di una donna che ti ama, invece, è una risposta originale, vero?
R:         Le dirò francamente che lei mi sta un po' sui coglioni.

D:        Sì me lo dicono spesso… vabbè finiamo 'st'intervista, forza. C'è qualcos'altro da aggiungere all'elenco? Per esempio, mi dicono che lei vada pazzo per gli yoyo.
R:         Sì mi piacciono, ma non li considero così importanti.

D:       Ma come le è venuta questa fissa?
R:         Non vuole saperlo davvero, mi creda.

D:        Ok ok... quindi, nient'altro da aggiungere?
R:        Beh un  bel culo… per esempio.

D:        Un culo?
R:         Beh sì… ma non un culo qualsiasi… cerchiamo di capirci…

D:        Un culo è un culo!
R:         Eh no! Esistono alcuni culi che sono speciali. Te li trovi davanti e sono come… apparizioni. Sono in grado di azzerare qualsiasi processo cerebrale… resti lì, imbambolato, a guardarli…  e capisci di essere fortunato ad essere lì…

D:        Ho capito...
R:        Perché vede... molti  sono fissati con le tette grosse. Chiariamoci, non che le tette non mi piacciano. Mi piacciono  eccome!

D:        Le si sta facendo lo sguardo vitreo, lo sa?
R:         Stia tranquillo, è tutto sotto controllo.Volevo solo precisare che, secondo me, un bel culo è molto più difficile da trovare, rispetto a un bel paio di tette.

D:        Ho capito… vabbè direi che possiamo chiuderla qui…
R:         Ho toppato?

D:        No è che… stava andando davvero molto bene. Quella faccenda delle parole e delle note, mi era piaciuta…
R:         Bella vero?

D:        Sì peccato che poi abbia tirato in ballo i culi…
R:         E' stato più forte di me.

D:        Allora… arrivederci.
R:         Aspetti!

D:        Sì?
R:         Volevo dirle delle Lacrime della Terra…

D:        La prego, non possiamo tirare in ballo ogni volta il suo libro…
R:         Lo so, ma è molto bello. Sa com'è nata l'idea? Ehi!? Aspetti… dove va? Guardi che non è carino comportarsi così… voglio dire, io in quel libro c'ho messo l'anima… e su, mi faccia una domandina sulle lacrime della Terra! Per piacere!

D:        Arrivederci.
R:         Chiunque lo voglia comprare, bisogna provare online...

D:       Arrivederci!
R:       E' inutile cercarlo in libreria, solo su qualche sito tipo IBS!

D:       Arrivederci!!!
R:        Gnhhh...

lunedì 14 aprile 2008

Frammenti di conversazioni letterarie

"Che stai leggendo?"
"Una cosa di Dante".



"Cosa?"
"Amor che a nullo amato amar perdona..."



"E che vuol dire?"
"Più o meno, che se qualcuno ti ama perdutamente non puoi fare a meno di ricambiarlo".



"Uhm"
"Eh"



"Certo che ne scriveva di stronzate Dante".
"Già... tu che c'hai lì?"



"Un Manga".
"Passamelo dai..."



--------------



"Weee!"
"Che c'è?"



"Dov'è che andava a lavare i panni Manzoni?!"
"Nell'Arno, perchè?"



"Si è rotta di nuovo la lavatrice!"
"Porca troia!!"



---------------


"L'hai poi finito Dostoijevskij?"
"Uh... no non ancora. Sai non è che mi piaccia molto".



"E allora perchè te lo leggi?"
"Beh, perchè è una pietra miliare".



"Ma non ti piace..."
"No... però, vabbè, mica uno può fare solo le cose che gli piacciono, no?"



"No infatti, però io ne faccio già così tante di cose che non mi piacciono che almeno la lettura preferisco sia solo un piacere".
"Uhm... ma cos'hai lì?"



"Un Manga".
"Passamelo dai!"

Funamboli

Musica consigliata durante la lettura: "L'equilibrio è un miracolo" dall'album "Funambola" di Patrizia Laquidara.


Capita qualche volta, quando arriviamo in posto nuovo, soprattutto se si tratta di un piccolo centro, che dei ragazzi vengano a curiosare, così, tanto per passare il tempo. Ed in genere, quando mi vedono gironzolare con l'aria un po' goffa, non risparmiano qualche battutina delle loro, di quelle che possono essere davvero cattive...
Non perché loro lo siano davvero… cattivi. Ma semplicemente perché per quei ragazzi, abituati a degli schemi ben precisi, io sono inevitabilmente ridicolo.
George dice che se io andassi in giro vestito "normalmente", questo non succederebbe. Dice che potrei cambiarmi solo per lo spettacolo, che sarebbe comprensibile se lo facessi e nessuno avrebbe niente da ridire in proposito, ma io non mi sento imbarazzato da ciò che gli altri pensano di me. Anzi, per la prima volta in vita mia sono... a posto.
A posto con me stesso, a posto con gli altri, a posto con Dio... a posto!
E per quanto riguarda le smorfie, la ridicolaggine, la goffaggine... non sono cose così terribili sai? Perché, in fondo, nessuno si aspetta niente di diverso da me. Quindi sono esattamente all'altezza delle aspettative degli altri, il che, in un certo senso, mi protegge.
E tutto questo lo devo a lei... a Magdala.
Lei... beh... lei era speciale.
La cosa buffa sai qual è? Che io non ho mai potuto sopportare il Circo. Sin da piccolo.
C'era qualcosa, nell'atmosfera circense, che mi infastidiva e mi immalinconiva, per cui, alla fine, odiavo tutto... odiavo i domatori, i giocolieri, gli acrobati. Odiavo i clown, i tendoni, i costumi. Odiavo il modo di parlare dei presentatori, lo zucchero filato. Odiavo persino Dumbo, l'elefantino volante.
Che fastidio. E che angoscia... sempre ad aspettare che qualcuno sbagliasse. Temendo che sbagliasse. Temendo per lui, soffrendo per il suo imbarazzo o il suo dolore. Patendo di un'attesa estenuante.
Così, dopo le inevitabili esperienze, da bambino, quando le mie possibilità di scelta erano fortemente limitate, mi ero guardato bene dal rimettere piede in un tendone colorato per anni ed anni. Fino all'inevitabile. Che, in fondo, non avrebbe dovuto cogliermi così impreparato come invece era accaduto. Perché l'inevitabile arriva sempre, prima o poi. Lo dice la parola...
E l'inevitabile, per me, si era verificato quando, diventato maestro elementare, mi era toccato accompagnare una classe di piccoli mostriciattoli al circo. Senza possibilità di scampo, senza appello, proprio come quando ero piccolo.
Ma, fortunatamente, qualcosa di buono, nel diventare adulti, c'è.
Nonostante tutti i miei timori e le mie riserve, infatti, questa volta tutto si era svolto in modo quasi indolore. L'età mi forniva gli strumenti e le protezioni necessarie affinché tutto mi scivolasse addosso senza traumi. Senza l'angoscia e la malinconia di quand'ero piccolino. Ma solo con un po' di fastidio che, con un po' di impegno, potevo quasi ignorare.
L'intero spettacolo era trascorso così, in una sorta di strano distacco, quasi tramortito. Senza coinvolgimenti pericolosi e, soprattutto, senza interesse. Almeno fino a quando non era arrivata lei... Magdala.
Il fatto è che lei mi colpì subito, perché era bellissima.
Bella, non di quelle bellezze straripanti. Ma bella di una seducente sensualità meno marcata. Piccolina, quasi minuta, ma dal fisico solido e perfetto. Il costumino di lustrini e paiettes dalle dimensioni ridicole fasciava un corpo atletico eppure deliziosamente femminile, in cui la pelle tesa disegnava forme sinuose e muscolose al tempo stesso. E le natiche perfette catturavano lo sguardo senza possibilità di fuga.
Così, già in quel momento, perso in quella visione inaspettata, dimenticai tutte le mie protezioni, e diventai preda del circo.
Scese la fune, dall'alto, e lei vi si appese con movenze perfettamente controllate. Si avviluppò a quella corda come se fosse l'abbraccio di un amante, e salì... salì... salì verso l'alto senza rete, senza protezione, per compiere il suo spettacolare numero di funambolismo.
Ed io, lì sotto, al sicuro, mi ritrovai con lei, appeso alla corda, a palpitare, a soffrire, proprio come quando ero piccolo. E quando, finalmente, il suo numero finì, mi resi conto che avevo la fronte imperlata di sudore, e stavo trattenendo ancora il respiro.
Quello fu il momento in cui mi stregò... lei... il circo o entrambi, non saprei.
Il circo restò in città per un mese intero. Ed io vidi quello spettacolo trenta volte. Alla fine mi conoscevano tutti e mi consideravano quasi uno di loro, e fu in questo modo che finii nel carrozzone di Magdala. L'ultima sera.
«Ti ho sentito mentre facevo il mio numero...» disse allacciandosi l'accappatoio.
«Davvero?»
«Certo, eri lì con me, sulla fune. Credevi  che non me ne accorgessi? Noi artisti le sentiamo queste cose...»
«Sì? Non lo so... io non ci credo molto in queste cose».
Sorrise prendendomi la mano e portandosela al cuore. «Lo senti, come batte?»
Io annuii e lei continuò «ed è così che ti sentivo, mentre stavo lì sopra, come un secondo battito accanto al mio. Quindi... tu eri con me.»
«E invece non è possibile» risposi «io non ero lassù, io ero di sotto. Perché... non potrei mai fare quello che fai tu. Non potrei mai vivere così...»
«Così come?»
«Con la vita appesa ad un filo. Sempre in bilico sull'orlo del vuoto. Ogni giorno. Appeso tra la vita e la morte, con la consapevolezza che un movimento sbagliato potrebbe farmi cadere».
«E cosa c'è di così terribile?» domandò lei sorridendomi.
«E me lo chiedi?» risposi «anche solo l'idea di vivere così, tutta una vita sulla corda... tutta la vita in bilico... è terribile».
«Ma tu sei proprio assurdo sai?»
«Perché?»
«Perché tutte le vite sono così. Anche quelle più normali, anche quelle banali e un po' noiose, sono appese ad un filo. Un filo sottile, invisibile, di cui nessuno conosce la vera natura. Un filo che può rompersi da un momento all'altro, facendoti precipitare nel vuoto. E quando quel filo si rompe... è davvero finita».
Restai a guardarla un po' imbambolato, preso un po' dalle sue parole ed un po' dall'accappatoio che aveva preso ad aprirsi leggermente.
«Ma almeno la mia corda io la conosco. Quella fune a cui mi appendo e sulla quale volteggio ogni giorno è la mia fune. Ed io ne conosco ogni segreto. So cosa aspettarmi da lei, e posso affidarle la mia vita con tranquillità. Quell'altra, quella a cui siamo appesi tutti noi, invece, è un mistero... e non si può mai sapere cosa aspettarsi da lei.
Di quella sì che c'è da aver paura.
E non lo so... forse e proprio per non pensarci che vivo così. Appesa alla mia fune, dimentico che ce ne sono mille altre su cui non ho potere. Rischiando la mia vita ogni giorno, volontariamente, dimentico che quella stessa vita è sempre in gioco, anche quando mi trovo a terra. E così vivo con meno paura, e con più gusto. E' così terribile secondo te?»
Scossi il capo.
«Il mio mondo è così...» disse lei tagliando ogni possibile obiezione «ed è un bel mondo, perché ci si vive bene, anche se è delimitato da un cerchio di roulotte sempre in viaggio...»
«Già. E domani partirai...» mormorai.
«E domani partirò...»
«E stiamo perdendo un sacco di tempo...»
«E stiamo perdendo troppo tempo!» esclamò lei ridendo ed attirandomi verso il suo seno...
E quella notte restai con lei. Per sperimentare cosa si prova a fare i funamboli con la propria anima, e col proprio corpo... e con il corpo di chi si ama. Facemmo l'amore in uno strano silenzio, che rimbombava più di mille gemiti, ed io capii... capii davvero, cosa voleva dire... e capii quali erano le mie paure. Perché tutta la mia vita l'avevo vissuta così, con la paura di vivere...
Il giorno dopo lei partì, col suo circo. Ed io rimasi a guardare i carrozzoni che scomparivano lentamente oltre l'orizzonte.
E quando arrivò un altro circo, qualche mese più tardi, non esitai un attimo. Mi tinsi la faccia di bianco, indossai una bombetta verde ed un nasone rosso, e mi presentai lì come se niente fosse.
Adesso faccio il clown da parecchi anni e la mia vita è un viaggio senza fine. Il numero che mi riesce meglio, lo faccio in bilico su una lunga fune... dove litigo con un gruppo di piccioni immaginari. Tutti ridono, e quasi non si rendono conto di quanto sia difficile saltellare su quella fune, senza cadere.
Ogni giorno rischio la vita... assurdamente in bilico. Ma sai una cosa? E' da tanto tempo che non ho più paura.
E sono sereno.


(Si ricorda che dove non specificato diversamente, i contenuti di questo blog sono regolati dalla vigente legge sul diritto d'autore)