mercoledì 26 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): BELLEZZA 2... e STUPORE... e AMMIRAZIONE... e INVIDIA





Per portare - diciamo - a conclusione, il discorso iniziato parlando de "La Grande Bellezza", vorrei fare un breve cenno a True Detective.
Nella conclusione del quarto episodio di questa eccezionale serie della HBO, possiamo assistere a un intricato piano sequenza della durata di ben 6 minuti.
Si tratta di un notevole virtuosismo registico e molti hanno accolto la cosa con inevitabile ammirazione, ma c'è anche chi dato dello "sborone" al regista che si è voluto cimentare in una tale impresa tutto sommato non indispensabile. In fondo... con due o tre stacchi la scena non avrebbe perso nulla.
Eppure...
Se confrontiamo questa prodezza con quelle di Sorrentino (sì lo so che sono due prodotti completamente diversi) viene spontanea una riflessione:
Mentre in ogni inquadratura de "La Grande Bellezza" emerge prepotente la "mano" del regista, guardando True Detective pochi si sono resi conto di questo piano sequenza. La maggior parte degli spettatori si è limitata a godersi la scena senza "rendersi conto" di cosa sta guardando.
Il piano sequenza conferisce a quei sei minuti una tensione  e un ritmo enormi, ma non ne diventa protagonista. A mente fredda, dopo (molto dopo), lo spettatore può ragionarci su e rendersi conto della portata "tecnica" di ciò che ha appena visto. Ma fino a quel momento si è goduto la scena... e la storia.
Questo a mio modesto parere, è un esempio di regia tecnicamente eccellente, ma non invasiva. Una regia attenta, profonda, suggestiva che non diventa protagonista della storia, ma che ne valorizza ogni aspetto, mimetizzandosi, restando nell'ombra e facendo sì che il pubblico venga risucchiato nel racconto e vi si perda...
True Detective è la dimostrazione di come si possa essere dei registi straordinari senza dover per forza far capolino all'interno delle proprie riprese, ricordando al pubblico quanto si è dannatamente bravi.
Questo è il tipo di regia che preferisco ed è il motivo per cui non ho amato il film di Sorrentino. 

domenica 23 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): immortalità


L'uomo dai denti storti

L’uomo dai denti sorti era, senza ombra di dubbio, la più inquietante figura della contea di Bath, nel Kentucky.
Chiunque lo avesse incontrato almeno una volta, nella propria vita, non poteva più scacciare dalla propria mente la figura di quell’uomo dalla dentatura raccapricciante. Non si sa bene cosa fosse capitato alla sua bocca, sta di fatto che quei denti non erano solo storti: c’era qualcosa di profondamente sbagliato, quasi perverso, nel modo in cui quei denti spuntavano dalle gengive, accavallandosi senza senso, andando ora di qua ora di là; nella indecente sfacciataggine con cui gli incisivi spezzati proclamavano al mondo la loro esistenza protendendosi all’infuori. Era un po’ come se tutte le storture del mondo e l’essenza stessa del caos avessero trovato la loro ideale rappresentazione nella dentatura dell’uomo dai denti storti.
Tuttavia, nonostante la coesistenza con una simile dentatura dovesse essere tutt’altro che semplice, l’uomo dai denti storti non se n’era mai curato più di tanto.
L’uomo dai denti storti camminava tra la gente come se niente fosse. Le occhiate di sorpreso disgusto gli scivolavano addosso innocue, destando in lui, come unica reazione, un appena accennato sorriso di superiorità.
I bambini fuggivano alla sua vista e più di una persona aveva perso l’appetito dopo che lo sguardo si era casualmente imbattuto in quel terremoto ortodontico. La sera, nelle case di Bath, si sussurravano a mezza voce racconti raccapriccianti su come l’uomo dai denti storti fosse entrato in possesso di quella dentatura. C’era chi diceva che fosse l’incarnazione terrena del chupacapra, chi che avesse stretto un patto col diavolo e chi, addirittura, che fosse il diavolo stesso in persona venuto a seminare il terrore con quell’aspetto mostruoso. Ma l’uomo dai denti storti si levava al di sopra di tutto ciò con caparbia indifferenza.
Benché  possa sembrare strano, o quanto meno improbabile, l’uomo dai denti storti aveva anche degli amici. Un gruppo di irriducibili che da sempre si accompagnavano a lui: Bill, Tom, Sammy Lee detto anche Ladyblue, Winston Tucker. Tutte persone che vivevano ai margini della società, preoccupate più a racimolare  i soldi per un buon whisky piuttosto che a concedersi speculazioni filosofiche sulla dentatura dell’uomo dai denti storti.
Quasi fosse un tacito accordo, nessuno di loro, in tanti anni di amicizia, aveva mai parlato di quei denti, neanche per una volta.
I denti c’erano. La loro stortura baluginava maligna ogni volta che l’uomo dai denti sorti parlava, o sorrideva. Ma nessuno, dico nessuno, ne parlava.
Ecco perché quel giorno fatale, tutti furono colti alla sprovvista quando Bill, all’improvviso, lo fece. 
Ora… tutti conoscevano Bill e sapevano com’era fatto. Era ormai nota la sua tendenza ad astrarsi quando se ne faceva qualcuno di troppo. Quel giorno, chissà come, il gruppetto aveva rimediato una bottiglia di quello buono e Bill ci aveva dato dentro di santa ragione. Quando il tasso alcolico di Bill raggiungeva il limite il suo sguardo si faceva sempre vitreo e si fissava su di un punto indefinito che poteva essere una macchia sul muro, un’imperfezione sulla superficie del tavolo o un insetto sul neon. Una volta si era ipnotizzato sulla scollatura di Margaret O’Sullivan ed era rimasto a fissarla per quasi un’ora fino a che il marito non se n’era accorto e gliele aveva suonate di santa ragione.
Ma Bill era fatto così, non dipendeva neanche da lui. Non si sa bene cosa gli scattasse nel cervello, era come se, per non affondare nel pantano etilico a cui lui stesso aveva dato origine, avesse bisogno di ancorarsi col pensiero a qualcosa di immutabile.  E così si immobilizzava… e restava imbambolato, a filosofeggiare di macchie, insetti o tette, fino a che non gli passava la sbronza. Si trattava, il più delle volte, di farneticazioni innocue. Solo che quella volta, chissà perché, si fissò proprio sui denti dell’uomo coi denti storti.
Gli amici se ne accorsero subito. Voglio dire, non era così difficile da capire. C’era l’uomo dai denti storti, seduto da un lato, e Bill che strabuzzava gli occhi, leggermente proteso in avanti, con lo sguardo fisso, fisso, su quegli incisivi che sembravano appena usciti dal bombardamento di Pearl Harbour.
La situazione  era potenzialmente molto pericolosa, quindi gli amici avevano provato a scuoterlo con qualche gomitata, ma niente, Bill ormai era andato. Potevano solo sperare che l’uomo coi denti storti non se ne accorgesse. Solo che è impossibile non accorgersi di uno che, a pochi centimetri di distanza, fissa la tua bocca con quell’aria un po’ stupita come se si trovasse davanti ad una apparizione mistica, e comunque, se anche ci fosse stata una sola possibilità di riuscirci, questa svanì miseramente quando Bill aprì la bocca: “cazzo” disse Bill “ma lo sai che i tuoi cazzo di denti, sono davvero storti, cazzo!”
Bill non era particolarmente noto per la varietà e la ricercatezza dell’eloquio.
“Cazzo” disse ancora Bill “i tuoi denti suono i denti più storti che io abbia ma visto nella mia cazzo di vita… cazzo. Ma non hai mai pensato di mettere una macchinetta? Cazzo…”
Nel bar di Walter Bennett calò immediatamente il silenzio. Tutti ma dico tutti gli occhi si puntarono sull’uomo dai denti storti in attesa della sua risposta o di una qualsiasi reazione o di chissà cos'altro... in attesa, insomma.
Qualcuno trattenne perfino il respiro.
L’uomo dai denti storti bevve lentamente un altro sorso di bourbon, guardò sereno Bill, e poi disse, me lo ricordo ancora come fosse ieri, queste precise parole: “no”.
Poi riprese a bere e dopo un attimo di tensione, la vita tornò a scorrere normale nel bar di Walter Bennett.
Ma noi lo sapevamo che l’uomo dai denti storti non aveva detto tutto quello che pensava. Quel “no” non era solo un no, era molto di più. C’era un mondo dietro a quel no, solo che bisognava scavare un po’ per riportarlo alla luce, per dargli forma. E, per la precisione, ci vollero altre tre bottiglie di Bourbon ed un estemporaneo ed involontario strip di Megan Bennett, la figlia di Walter (che restò impigliata con la gonna negli scarponi di Flann O’Brian), per sciogliere la lingua dell’uomo dai denti storti, che alla fine ci prese in disparte e sussurrò in un soffio di alito alcolico: “Sapete? Io non ho mai avuto paura dei dentisti, se è questo che pensate… non ci metterei niente ad andare da uno di loro per farmi rimettere a posto la bocca… una volta mi sono fatto fare un preventivo, sapete quanto ci vuole?” noi scuotemmo il capo. “Per rimettere a posto tutto l’apparato ci vorrebbero 47.925 dollari!” annunciò con fierezza. “E io ho tutta la cifra da parte, fino all’ultimo centesimo, perché devo sapere che, in qualsiasi momento, se volessi, potrei farlo. Anche domani, se mi girassero, potrei andare da un dentista, dargli tutti quei fottutissimi 47.925 dollari e farmi sistemare… solo che non voglio”. Concluse.
“E perché?” gli chiedemmo noi.
Lui sorrise con quel suo solito sorriso, poi lasciò scorrere lo sguardo sugli avventori del bar, e poi su di noi. “Vi siete mai guardati intorno” disse “avete mai visto cosa sono gli altri, e cosa siamo noi? Noi siamo delle brave persone, ma non tanto brave da distinguersi dagli altri. C’è quel minimo di bontà di base che puoi trovare in ogni uomo, senza però che nessuno sia capace di diventare un fottuto santo o un missionario. E siamo anche un po’ cattivi… non fare quella faccia Winston, lo siamo. Ma poco. Non abbastanza, almeno, per fare davvero del male a qualcuno. Volontariamente intendo e non come Tom quando passò col trattore sul vecchio Mandy. Non siamo che una fottuta macchia grigia, indistinta sul palcoscenico marcio di questa vita senza senso, in un teatro dalla platea vuota, perché nessuno è intenzionato a pagare il biglietto. Siamo solo l’enorme quintessenza del nulla: niente di speciale, mediocrità allo stato puro che si confonde in mezzo ad altra mediocrità… Nessuno di quelli presenti in questo bar verrà mai ricordato per qualcosa che ha fatto, nessuno! Neanche la figlia di Walter, che si è persa la gonna stasera - anche se... non mi aspettavo avesse un culo così bello - ma nonostante tutto, anche le sue chiappe per quanto piacevoli, verranno dimenticate. Quando saremo morti, verremo inghiottiti dal nulla. Nessuno si ricorderà di noi… perché non c’è nulla da ricordare. Ma… nessuno, mai, dimenticherà i miei denti storti. 50 o anche 100 anni dopo la mia morte, nella contea di Bath si dirà: ma voi ve lo ricordate l’uomo dai denti sorti! Cazzo! Era spaventoso!
I nonni racconteranno di me ai loro nipoti, e loro faranno la stessa cosa con i loro figli e il mio ricordo vivrà per sempre, grazie a questi denti. Non ricorderanno il mio nome, non ricorderanno cosa facevo, ma nessuno potrà mai dimenticarsi dei miei denti. Ecco perché non li ho mai fatti raddrizzare, perché grazie a loro io ho rosicchiato la mia fetta di immortalità!”
E, detto questo, finì l’ultimo bicchiere di bourbon e si allontanò fiero dei suoi denti e della sua vita, camminando leggero verso casa e verso l’immortalità.

Una parola al giorno (o quasi): VERITA'

In quei giorni ci riunimmo appena fuori Gerusalemme per parlare tra di noi, ma non dicemmo nulla né a Gesù né al suo prediletto.

Le cose si stavano mettendo male, i farisei erano diventati piuttosto aggressivi e i sacerdoti del tempio ci aizzavano contro le folle. Non era quello che ci eravamo aspettati quando avevamo seguito Gesù a Gerusalemme e sentivamo il bisogno di chiarirci le idee.

Andrea, Taddeo e io arrivammo per primi, e accendemmo il fuoco su cui cucinammo del pesce. Poi ci sedemmo a capo chino ad aspettare gli altri, che arrivarono poco dopo, alla spicciolata.
Formammo un cerchio e incominciammo a guardarci l’un l’altro, senza che nessuno avesse il coraggio di parlare per primo. Eravamo depressi e spaventati. Il futuro ci appariva quanto mai incerto e, benché mi addolori ammetterlo, il nostro legame con Gesù incominciava ad incrinarsi perché Lui, era così preso dalla Sua missione divina, che spesso non riusciva a capire i nostri problemi e le nostre preoccupazioni, decisamente più materiali. E noi, dal canto nostro, avevamo qualche difficoltà a seguire tutti i suoi ragionamenti.
Tutto questo sarebbe stato facilmente superabile se avessimo avuto davanti a noi la calma e la serenità necessarie per affrontare tante cose così grandi, per noi. Ma la calma non c’era, c’era solo la paura... tanta paura, che ogni giorno aumentava un po’.
Incominciammo a mangiare, sempre in silenzio, guardando con crescente apprensione l’undicesimo posto, ancora vuoto.
«Qualcuno di voi ha notizie di Pietro?» domandai ad un certo punto.
Gli altri scossero il capo.
«Non è da lui tardare così» osservò Taddeo preoccupato, «non vorrei che l’avessero beccato i farisei...»
«Ma perché ce l’hanno con noi... voglio dire... che male facciamo!?» esclamò Giovanni.
«E’ vero!» gli fece eco Bartolomeo «noi cerchiamo solo di seguire la parola di Dio... perché devono odiarci per questo?»
Fu in quel preciso momento che comparve Pietro. Aveva una benda sporca di sangue intorno alla testa, lo sguardo stralunato, e reggeva in mano una grossa pietra squadrata.
«Ci odiano perché hanno paura della verità!» ansimò «hanno paura che le parole del Maestro siano vere... ed anch’io, Dio mi perdoni, anch’io comincio ad avere questa paura...»
«Pietro, ma cosa ti è successo?» domandai.

«Gli scribi, mi hanno riconosciuto mentre venivo qui e mi hanno aizzato contro un gruppo di farisei... a momenti m’accoppavano...»
«Non possiamo continuare così... Gesù deve fare qualcosa...» mormorò qualcuno.
«Sì, ci vuole una dimostrazione di forza!» disse un altro.
«Una dimostrazione di forza? Una dimostrazione di forza... da Gesù!?» ruggì Pietro «ma allora non avete capito ancora niente!»
Lo guardammo un po’ a disagio.
«Sono andato da Gesù con questo sasso... e gli ho fatto vedere cosa mi hanno fatto i farisei... sapete cosa mi ha detto?»
Scuotemmo il capo.
«Mi ha detto: “non prendertela Pietro, te l’ho già detto molte volte: tu sei buono e ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre, qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, soltanto sassi in faccia prenderai...”
“Sì Maestro”, gli ho risposto, “ma queste sono pietre che fanno molto male... e non vorrei restarci secco”.
Allora Lui ha preso la pietra e mi ha detto: “Non sono queste le cose che devi temere... perché tu sei Pietro, e su questa pietra fonderò la mia Chiesa.”»
«Sono parole molto belle» commentai, «devi esserne fiero.»
«Lo sarei di più se avessi ancora la testa sana...» rispose Pietro sempre più cupo «anche perché, come potete vedere anche voi, questo non sembra un sasso su cui si possa edificare qualcosa... è troppo piccolo. Ma quando ho cercato di farglielo notare, Lui mi ha risposto che questo non è un sasso, bensì il peso dell’odio e del pregiudizio che ognuno di noi dovrà sopportare. Ma è anche il simbolo della forza e della tenacia della nostra fede, che non crollerà mai.»

«Davvero? A me sembra un porfido composto in prevalenza da quarzo e ortoclasio, squadrato e sagomato per la pavimentazione» osservò Giacomo, che di rocce se ne intendeva.
«E’ quello che ho detto anch’io» disse Pietro «ma Gesù ha detto che dovevo guardarlo con gli occhi della fede.»
Giacomo si fece dare il pezzo di roccia, socchiuse gli occhi, e lo studiò con maggiore attenzione, poi scosse il capo perplesso «a me continua a sembrare un porfido...»
«Credo» dissi «che ci sia il solito problema di interpretazione... dovremmo cercare di prendere il Maestro meno alla lettera, lo sappiamo che quasi tutto quello che dice ha prevalentemente valore simbolico.»
«Lo sappiamo, ma non ci capiamo niente lo stesso» si lamentò Taddeo. «E’ sempre stato così, ed ogni volta si creano degli equivoci di interpretazione che vanno avanti per intere settimane.»
«L’unico che riesce a stare dietro a quei ragionamenti è quell’altro... il suo apostolo preferito, ma non si degna certo di spiegarli a noi!»
«Dovrebbe essere Gesù a pensarci. Lui lo sa che noi siamo persone semplici, non capiamo il simbolismo e la retorica...» mugugnò Andrea.
«La retro che?» domandò Pietro.
«Per l’appunto...» dissi.
«E invece insiste nell’usare Parabole incomprensibili, parole difficili... come se in realtà non gli importasse realmente di essere capito...» continuò Andrea.
«Forse non gli interessa...» ipotizzai.
«Per esempio!» esordì Bartolomeo «ricordate quando Pietro gli andò a chiedere quante volte avrebbe dovuto perdonare a chi gli faceva un torto?»
Annuimmo.
«Ebbene, cosa ti rispose?» continuò rivolgendosi ora direttamente a Pietro.
«Beh... io chiesi se bastava perdonare fino a 7 volte... e Lui mi disse di no, che dovevo perdonare almeno 70 volte 7...»
«Bene... e ricordiamo tutti come andò a finire, no?» riprese a dire Bartolomeo. «Pietro si chiuse in una stanza col pallottoliere per calcolare con precisione quante volte dovesse perdonare... ma Pietro non ne capisce di matematica, naturalmente, e quindi gli ci volle... quanto ti ci volle, dillo...»
«Quindici giorni...» bofonchiò Pietro a bassa voce.
«E a cosa ti hanno portato i tuoi calcoli?» domandò ancora Bartolomeo.
«Beh, sembrerebbe che si debba perdonare fino a 490 volte... ma quando sono andato a chiedere conferma a Gesù mi ha risposto che 70 volte 7 era solo un modo dire.»
«Ovviamente!» esclamò Andrea «come al solito... del resto. Lui voleva dire che bisogna perdonare sempre.»
«E perché non l’ha detto chiaro e tondo?» domandò Taddeo.
«La verità è che tutta questa storia è sempre stata piena di equivoci» dissi «come quando incontrò Pietro e Andrea e li scelse come discepoli.»
«E’ vero,» annuì Andrea, «la pesca andava male, e non sapevamo che pesci pigliare, quando, ad un certo punto, arrivò Lui, tutto sicuro di sé, e disse: “seguitemi, da questo momento vi farò diventare pescatori di anime”.»
«E voi?» chiese Tommaso.
«E noi lo seguimmo!» rispose Pietro. «Pensavamo che fosse un corso di formazione per una nuova professione, qualcosa organizzata dal collocamento, o chissà che altro...»
Sorrisi tristemente.
«Un po’ come quando raccontò la storia della pagliuzza e della trave...»
Qualcuno incominciò a ridacchiare, ricordando.
«C’era quel mercante...» incominciai a raccontare «che venne da Lui esprimendo giudizi sprezzanti su alcuni suoi rivali...»
«Mi ricordo!» sghignazzò Giovanni.
«Allora Gesù gli disse: “perché guardi la pagliuzza che sta nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che sta nel tuo?” E quello si portò le mani alla faccia ed incominciò a strillare: “Oddio!!! C’ho la trave nell’occhio!!! All’assassino! Mi ha ficcato la trave nell’occhio! Ahhhhh!!!”»
«Fu un vero macello» disse Pietro.
«Già... il fratello del mercante prese un coltello e corse via deciso a trovare il fantomatico aggressore, e intanto quello non la smetteva di urlare, implorando che lo portassero da un medico, mentre Gesù cercava di spiegare cos’è una figura retorica...»
«Che figura...»
«A proposito di interpretazioni sbagliate...» esordì Taddeo «secondo voi cosa voleva dire con quello strano discorso che ha fatto a tavola?»
«Quello del pane e del vino o quello del tradimento?» domandò Pietro.
«E che differenza fa? Erano incomprensibili tutti e due, come al solito!»
«Non come al solito...» replicò cupo Pietro «una volta tanto qualcosa io l’ho capita.»
«E sarebbe?» domandai.
«Non fare il finto tonto, tu sei il più colto di tutti noi, non cercare di farmi credere che non hai capito!» rispose.
«Cosa avrei dovuto capire?»
«Che Gesù morirà! Imbecille! L’ha detto più di una volta, molto chiaramente... verrà consegnato ai sacerdoti e poi ucciso, ma il terzo giorno resusciterà.»
«Anche questa volta abbiamo sicuramente frainteso le sue parole...» dissi.
«E invece no!» urlò Giovanni «questa volta Pietro ha ragione, c’è poco da fraintendere... e poi pensaci... sta andando tutto a rotoli... c’è una sola cosa che potrà convincere tutti che Lui è il Messia.»
«Ma certo...» mormorai «...la sua resurrezione!»

«L’unico problema è che, probabilmente, noi verremo fatti fuori molto prima di Lui» commentò Pietro.
«Già! A Gerusalemme rischiamo la vita ad ogni passo» confermò Bartolomeo «ieri mi hanno inseguito per quasi un chilometro con una lunga pertica che volevano infilarmi...»
«Maledetti farisei!!!»
«Ci accopperanno tutti!»
«Non è detto...» disse Pietro «non è ancora detto...»
«Cosa vuoi dire?» domandai, sentendo un brivido di presentimento che mi scorreva lungo la schiena.
«Se prendessero Gesù subito... probabilmente non penserebbero più a noi.»
«Si... ma... non sarà così facile che lo prendano... hanno paura di come potrebbe reagire la folla...» dissi.
«Ma se glielo consegnassimo noi...» sussurrò Pietro.
«Sei impazzito?!» tuonò Taddeo «come puoi pensare una cosa del genere???»
«Qualcuno dovrà pur farlo!» rispose l’altro «e sappiamo che si tratterà di un tradimento, perché ce lo ha detto Lui stesso a tavola. Ma, ascoltatemi bene, sarà un vero tradimento?»
Restammo in silenzio a guardarlo, un po' inquieti.
«No! Non lo sarà. E sapete perché? Perché Lui ha bisogno di essere arrestato, ha bisogno di essere ucciso per poter risorgere e convertire l’intera umanità. E come farà se non lo consegneremo ai sacerdoti, o se, quando verrà arrestato, noi saremo già tutti morti? Chi penserà a diffondere la Sua parola, se noi non ci saremo?»
Aveva ragione. Capii subito che aveva ragione. Ma la cosa non mi piaceva ugualmente. E poi c’erano almeno due cose che non quadravano, nel suo ragionamento.
«Sono d’accordo su quello che dici...» dissi «ma ci sono due problemi. Il primo, è che, se lo tradissimo, come proponi, poi nessuno potrebbe seguirci e avere fiducia in noi... e quindi, che utilità avremmo per la diffusione della fede? Vivi o morti, non serviremmo comunque. La seconda è che siamo solo in undici qui, il dodicesimo adesso è con Gesù ed è il Suo prediletto. Sappiamo benissimo che non acconsentirebbe mai a tradirlo.»
Pietro sogghignò. C'era una durezza quasi cattiva in quel sorriso. Una durezza spietata che non avevo mai visto in lui e cghe mi fece un po' paura.
«Ho una risposta che risolve entrambi i problemi.»
«Cioè?»
«Quando Gesù morirà, chi racconterà la sua storia?»
Scrollai le spalle.
«Saremo noi ovviamente» rispose. «Sarai tu, che già stai mettendo per iscritto tante cose, sarà Giovanni, e saremo noi altri. E tutti conosceranno solo la nostra verità, perché solo noi abbiamo vissuto col Messia e possiamo raccontare agli altri come sono andate le cose.»
«Dimentichi qualcuno... dimentichi Giuda, il suo preferito.»
«Chi dice che Giuda è il suo preferito?» sbottò Pietro.
«Ma lo sappiamo tutti!» disse Taddeo.
«Noi non sappiamo un bel niente!!! E comunque, non è detto che quel che sappiamo debba essere detto a tutti... Giuda, per esempio, potrebbe essere un traditore...»
«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamai.
«Non sono sciocchezze. Se noi diremo che fu Giuda a tradire, tutti lo crederanno. Sarà la parola di 11 contro uno, uno che, per il rimorso di aver compiuto un gesto così infame, potrebbe anche uccidersi...»
«Non posso credere che tu stia dicendo sul serio» mormorai.
«Ma non capisci che questo è l’unico modo perché si compia la volontà di Dio?»
«Io dico di mettere ai voti» propose Andrea.
«Va bene, votiamo» acconsentì Pietro «ma ricordate quello che vi dico... è Gesù a volerlo, anzi, è la volontà del Padre. Solo se agiremo così si compiranno le scritture. E poi, Gesù risorgerà, dopo tre giorni, ricordate? Lo ha detto lui... quindi di che vi preoccupate? Quanto a Giuda... beh... il suo sacrificio è necessario perché noi si possa diffondere la parola del Cristo... sarà il nostro capro espiatorio, ma verrà sicuramente premiato nel regno dei cieli!»
Non avevo mai sentito un Pietro così convincente e pensai che, in fin dei conti, forse era proprio Dio a mettergli quelle parole in bocca... forse... poi, mentre tutti votavano a favore della sua idea, ricordai il frammento di una conversazione che avevo sentito qualche giorno prima tra Gesù e Giuda.
«Sono persone semplici, e non sempre ti capiscono...» stava dicendo Giuda, «perché non lasci che io spieghi loro le Tue parole?»
«Quando sarà il momento capiranno» aveva risposto il Cristo «li ho scelti così, perché solo essendo ciò che sono potranno decidere di fare ciò che va fatto... ma non angustiarti per loro, in un certo senso il ruolo peggiore spetterà a te... figlio mio.»
E ricordando quelle parole provai una stretta allo stomaco.
«Manca solo il tuo voto, Matteo» disse Pietro.
Lo guardai, guardai gli altri, intorno a me, e alzai la mano.

sabato 22 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): SPAM


Attenzione se ti arriva la richiesta da parte del contatto tifottoilpc@hothothot.com mi raccomando, non accettarlo assolutamente, l’allegato che ti offre non è il video di Maria De Filippi che organizza una seduta sadomaso con i ragazzi di Amici, ma un potente virus che formatterà la zona C2-C3 del computer, cancellando PER SEMPRE le vocali dal tuo word, invertendo casualmente le funzioni dei tasti della tua tastiera ed inserendo un pericoloso Cavallo di Troia che ruberà le tue password, il tuo codice fiscale, il tuo numero di scarpe, i tuoi account, gli account dei tuoi amici, gli account degli amici degli amici, i tuoi numeri del cellulare con i pin e i puk e, se ci fossero, anche i poc, e invierà a nome tuo mail con proposte scabrose e contro natura al tuo datore di lavoro, ai tuoi suoceri ed al parroco della tua parrocchia.

Inoltre


Forse non lo sai, ma dal 32 dicembre di quest’anno, Facebook diventerà a pagamento. So che hai già ricevuto questo avviso in passato, ma questa volta è VERO! Il canone per l’utilizzo delle funzioni base sarà di 5000 dollari al mese! A meno che tu non provveda ad inviare immediatamente questa mail a tutti i tuoi contatti, in questo modo gli salverai il culo da tifottoilpc@hothothot.com e permetterai ai gestori di Facebook di rilevare quanto è estesa la tua rete di contatti. Perché, com’è logico che sia, solo quelli che NON usano Facebook saranno tenuti a pagare il canone, ma chiunque dimostri di usarlo attivamente, potrà continuare a farlo gratuitamente.

Inviando questa mail a tutti i tuoi contatti, parteciperai anche alla innovativa ricerca di mercato della INTERNET MAFIA ASSOCIATION, che sta testando nuovi canali di vendita per droghe leggere e pesanti (eventualmente anche mortali). Per ogni tuo contatto che accetta di sottoporsi ai test riceverai 10 dollari, e per ogni contatto dei tuoi contatti 5.

ANCHE IO NON CI CREDEVO, MA è VERO!!!


In poco tempo potresti guadagnare fino a 100.000 dollari ed una incriminazione per associazione mafiosa che gli avvocati della IMA faranno cadere con facilità irrisoria.

Tra l’altro, attraverso questo giro di mail, aiuterai la piccola Denise Fruzpatrjiken, affetta da una rara malformazione congenita che le consente di fare pipì solo se assume la posizione Yoga  del “trampolista cieco in precario equilibrio sul mignolo”.

Come potrai facilmente intuire, la vita di Denise è un incubo che TUTTI INSIEME possiamo aiutare a dimenticare per sempre, attraverso un semplice clic. Per ogni invio, l’associazione medica degli amici del Dr. House, darà 1 dollaro al fondo pro Denise che finanzierà il ciclo di 2457 delicati interventi che le consentiranno di fare finalmente la pipì normalmente.

Ma non finisce qua!


Forse non ci crederai, ma gli Angeli esistono davvero, e poiché ad essere alati, perfetti ed eterni dopo un po’ ci si fa due palle tanto, si divertono anche loro su internet, e leggono le nostre mail.

Ecco perché, se spedirai questa mail entro 10 secondi dalla ricezione, verrai premiato da uno di loro che verrà a farti visita e ti darà modo di realizzare il tuo più grande desiderio!
Ai più fortunati potrebbero annunciare perfino una prossima maternità... non so se mi spiego.

Ma poiché ad essere alati, perfetti ed eterni, dopo un po’, oltre a farsi due palle così, si diventa anche un po’ cazzimmosi, se NON spedirai questa mail entro il tempo richiesto, su di te si abbatterà una tale devastante sventura al confronto della quale le dieci piaghe d'Egitto ti sembreranno un simpatico momento di svago.

ATTENZIONE!

So che sei scettico e che la tua arida formazione scientifico illuminista, maturata seguendo con avida attenzione i programmi di Piero Angela ti impedisce di accettare razionalmente quel che ti dico, ma non commettere l’errore si sottovalutare il soprannaturale…

Giulio Cesare ricevette una lettera così, poco prima delle idi di marzo, e invece di darle ascolto prese a calci il messaggero… pochi giorni dopo venne ferocemente ucciso a coltellate da Bruto, Cassio, un gruppo di senatori… e il messaggero.

Napoleone Bonaparte ne ricevette una simile, poco prima della battaglia di Waterloo, ma se ne fregò altamente… e tutti sappiamo come andò a finire.

Bill Gates ricevette questo stesso avviso a 18 anni, e inoltrò il messaggio a 7342 amici, ricevendo in premio la microsoft!

Enrico Letta ha ricevuto questa mail qualche settimana fa, ma poiché gli avevano twittato di stare sereno se n'è allegramente strafregato...

Che ne dici? Vuoi fare la fine di Cesare o di Bill Gates? 

Pensaci!

PICCOLA NOTA CONCLUSIVA: Amici, fratelli, cittadini… vi voglio tanto bene, ma il prossimo che mi manda una di queste mail del cazzo, lo cancello dai miei contatti.

venerdì 21 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): DECLINO

Antonio Banderas...



















Volevo scrivere delle cose... ma mi sono reso conto che non ce n'è bisogno.

Una parola al giorno (o quasi): CORAGGIO

Fino a 45 anni Winston Tucker non aveva mai visto il mare.
Ne aveva sentito parlare, ovviamente. E una volta, verso i 27 anni, qualcuno gli aveva fatto vedere una vecchia foto sbiadita ritagliata da un giornale, in cui sullo sfondo, oltre una grossa cadillac rosa, si intravedeva uno spicchio d’oceano blu. Ma i contatti tra Winston e il mare non erano andati oltre, e questo non perché non ne avesse avuto la possibilità o perché avesse un qualche problema particolare con il mare ma, molto più semplicemente, perché la cosa non lo interessava minimamente. Diceva che non sapeva cosa farsene di un’immensa distesa d’acqua inutile come il mare. Che senso ha tanta acqua se non la puoi bere, non ti ci puoi lavare e non ci puoi innaffiare le piante?
Del resto, Winston Tucker era fatto così: era un uomo pratico. Il suo interesse per ciò che non lo riguardava direttamente o non poteva rivelarsi utile in qualche modo era prossimo allo zero e, a pensarci bene, non ci sono molti modi in cui il mare possa rivelarsi utile per un minatore del Kentucky.
Si diceva, per la verità, che Winston non fosse nato nel Kentucky, che venisse dal sud e fosse imparentato con qualche proprietario terriero della Carolina del Sud. Ma erano solo voci non confermate, e quale che fosse la verità, i Tucker si erano trasferiti nel Kentucky quando Winston era ancora un bambino e da allora non si erano più mossi da lì.
Questa è la mia terra e non vedo proprio perché dovrei prendermi la briga di scapicollarmi a valle, solo per vedere una cosa inutile come il mare – diceva.
Beh ma al mare puoi fare il bagno – gli rispondeva Fred Bonner per provocarlo – e ci puoi nuotare anche, nel mare, sissignore!
Ma quelle erano cose che Winston poteva fare tranquillamente nel Martins Fork Lake, che era decisamente più vicino e che non era salato e, a quel punto, la conversazione terminava immancabilmente anche perché Fred non era proprio l’equivalente di un oratore smaliziato e non riusciva a obiettare nient’altro che qualche brontolio confuso.
Col tempo però questa cosa di Winston e del mare, passando di bocca in bocca, era diventata una cosa grossa. Del resto, non è che ci fosse molto da fare ad Harlan, se non scavare nelle miniere e morirci dentro. Quindi, tra una tragedia e l’altra, non restava che parlare di questo o di quello. E bisogna ammettere che la difficile relazione tra Winston e il mare, in un posto come Harlan, si guadagnava inevitabilmente il podio tra le questioni di cui parlare tra una birra e l’altra.
All’inizio a Winston la cosa era anche piaciuta.

Essere il principale argomento di conversazione della contea era, tutto sommato, divertente.
Dopo un po’, però, alcuni di quelli che non provavano troppa simpatia per lui, cominciarono a infilare nel discorso delle velate insinuazioni sul perché Winston avesse così tanti problemi col mare.
Se uno è a posto, regolare, che problemi può avere con una cosa tranquilla come il mare? Vai, lo guardi e torni, punto. Se proprio hai voglia, ti levi le scarpe e i calzettoni bucati, e fai quattro passi sul bagnasciuga. Se sei un vero temerario puoi fare addirittura il bagno. Ma non è obbligatorio, certo. Però che diamine, un’occhiata al mare gliela dai, no?!
Ci doveva essere qualcosa di profondamente sbagliato in quel Tucker. Doveva per forza nascondere qualcosa di molto brutto. Nossignore, quel Tucker non la contava giusta.
Sempre all’inizio, Winston aveva sorriso con una certa superiorità di quei quattro cialtroni che sparlavano alle sue spalle.
Dicessero quel che gli pareva… a lui non importava. Aveva le sue grandi mani callose, i suoi amici, il suo whisky, e quella miniera di merda. Il sabato, nel Saloon, poteva fingere di saper suonare il pianoforte. Insomma, lui stava benissimo così e non gli mancava niente, men che meno il mare.
Poco a poco, però, le insinuazioni della gente, avevano cominciato a diffondersi, a far proseliti, a mietere consensi e dopo qualche tempo si erano trasformate da mormorio indistinto a vociare un po’ confuso sì, ma assordante, e a Winston erano inevitabilmente girate le palle.
Successe così che una sera, lui e Teddy Donnegal presero a discutere fitto fitto della cosa. Iniziarono alle 18 e finirono verso le 4 del mattino, solo dopo essersele date di santa ragione.
Per la verità non si sa bene come cominciò. Qualcuno disse che fu Winston, qualcuno Teddy, qualcun altro disse che era stato Walton e che poi, quando aveva visto che le cose si mettevano male, se l’era squagliata. Fatto sta  che i due cominciarono a discutere parlando del mare e del perché e del percome, del forse e del quando. Winston com’era sua abitudine, argomentò pazientemente enumerando tutte le sue buone ragioni. L’altro lo ascoltò in silenzio per quasi un’ora e quando Winston finalmente tacque, gli disse che poteva dire tutto quello che voleva, ma nessuno gli toglieva dalla testa che Winston se la faceva sotto! Proprio così, lui il mare non lo aveva mai visto perché si cacava sotto dalla paura. Aveva un fottutissimo terrore di tutta quell’acqua.

Ora, a Tucker si poteva dire quasi tutto, tranne che avesse paura di qualcosa. Se gli davi del fifone smetteva di soridere e diventava cattivo. E così fu probabilmente per questo che a proposito di paura, ricordò a Teddy di quella volta che non aveva trovato il coraggio di invitare Jenna Woolbridge al ballo, e poi lei era stata invitata da Marshal Smith, e due settimane i due erano già marito e moglie, mentre Teddy – quello sì che era un cacasotto secondo Tucker - aveva passato le due settimane succesive a ubriacarsi.
Non che la cosa non fosse vera. È che a Teddy quella storia bruciava ancora e parecchio. Teddy era stato, e probabilmente era ancora, fottutamente innamorato di Jenna, lo si vedeva da come gli luccicavano gli occhi, la domenica, quando la vedeva presentarsi a messa con i suoi tre figli e la pancia gonfia del quarto. E a Jenna piaceva Teddy. Ma lui non si era mai fatto avanti con lei, non aveva trovato il coraggio e lei, alla fine aveva ceduto alla corte di Marshall perché non c’era nient’altro che una brava ragazza potesse fare nella contea di Harlan, se non maritarsi con un buon partito, all’età giusta. E Marshal lo era… un buon partito, ma soprattutto, Marshal a differenza di Teddy, l’aveva invitata e gliel’aveva chiesto.
Quindi, come potete immaginare, quando Winston rinvangò tutta la faccenda Teddy non ci vide più e fu così che dalle parole passarono alle urla, dalle urla alle minacce e dalle minacce ai pugni.
Alle tre del mattino se l’erano date di santa ragione, con tale impegno che a stento si reggevano in piedi. Ma non era finità lì, perché Winston era così... non era disposto a chiudere la questione in parità. E così disse che non aveva paura di niente lui, che si era rotto le balle e che sarebbe andato a vedere questo cazzo di mare, così Teddy e tutti gli altri avrebbero finalmente chiuso la bocca.
E c’è da dire che Winston, quando diceva una cosa, la faceva. Così prese a camminare, ancora un po’ traballante, fino alla fine della strada dove chiese un passaggio a un furgoncino scassato. Sul furgoncino arrivò fino a Johnson City, da lì beccò un predicatore pazzo che lo portò fino ad Asheville. Ad Asheville andò a mangiare una bistecca dal vecchio Brickerbuck, che cucinava la miglior bistecca nel giro di 500 miglia e poi prese al volo un camion fino a Spartanburg. Fece una breve deviazione fino a  Greenville perché una volta aveva sentito parlare di una barista con le tette più grosse di tutto il Kentucky che, a quanto pare, lavorava da quelle parti. Era un’esagerazione ovviamente. La barista c’era e le sue tette erano effettivamente piuttosto grosse, ma aveva visto di meglio. 

La parte finale del tragitto Winston la fece su un treno merci per la tratta Columbia-Florence-Conway, e poi, finalmente, sul retro di un carro malandato, arrivo a Myrtle Beach e all’oceano.
Era un po’ emozionato Winston, quando raggiunse la spiaggia. Ma neanche più di tanto.
Sapeva già cosa avrebbe trovato.
Acqua. Tanta acqua. Troppa acqua.

Restò lì un po’, con lo sguardo che si perdeva oltre l’orizzonte. Poi raccolse una manciata di sabbia se la mise in tasca si voltò e tornò indietro.
Ci mise 30 ore per andare e tornare.
Arrivato ad Harlan andò direttamente da Teddy. Gli mise la sabbia in mano e disse: “io non ho paura di niente… coglione!”
Teddy restò lì, impalato, come un cretino, con la sabbia di Myrtle Beach in mano.
Restò lì per due o tre ore, con il sole a picco che gli dava in testa. Ma lui niente. Fermo. Cristallizzato. La fronte imperlata di sudore. I granelli di sabbia che cadevano a terra attraverso le dita… lo sguardo fisso su quella mano.
Poi, all’improvviso, si riscosse e andò diretto da Jenna Woolbridge, e le stampo un bacio in bocca, così, senza neanche una parola.
E lei quel bacio se lo prese tutto,e anche un altro paio, stando a quello che si dice. E forse, ma non è confermato, si prese anche qualcos’altro. Ma non lì, sul patio di casa, dove potevano vederli tutti. Qualche giorno dopo, in un piccolo motel lì vicino. Fatto sta che una manciata di mesi più tardi, con una pancia grande ormai come un dirigibile, Jenna lasciò Marshall e scappò via con Teddy.
Si stabilirono a Providence, dove gli scodellò altri tre figli, tutti di Teddy questa volta, che si sommarono a quelli di Marshall, per un totale di sette fottutissimi figli. Ma questa è un’altra storia.
Quello che si dice, invece, è che quando l’uomo dai denti storti, che era uno dei migliori amici di Winston, gli andò a raccontare quello che aveva fatto Teddy, quello fece mezzo sorriso e disse qualcosa tipo: bene bene.
Poi l’uomo dai denti storti gli chiese del mare. Insomma, dopo 45 anni, che effetto gli aveva fatto vedere questo mare?

E Winston si era limitato a scuotere le spalle con noncuranza: è un mucchio di acqua – aveva risposto poi – solo un mucchio di acqua inutile.

giovedì 20 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): SLOGAN

Esistono slogan pubblicitari memorabili, e altri un po' meno ispirati (ma appena appena)...

"... così non ci sarà più distanza tra la superficie della strada e quella della nostra pelle".

Yeah!
...
Yeah?




Ehm...
...ma anche no?

mercoledì 19 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): PROSPETTIVE



La prima cosa che ricordo, di quando arrivai ad Harlan… sono le colline decapitate.
Ed erano uno spettacolo così assurdo, così impensabile, che restai imbambolato a fissarle senza riuscire a capire.
Un vecchio dalla faccia scavata come un canyon, nel vedere quella mia espressione confusa, sorrise e mi disse: So cosa stai pensando ragazzo, è come se l’immensa mano di Dio, reggendo coltello, le avesse scalpate per prendersi un trofeo da portare lassù in cielo o giù all’inferno, a seconda di dove viva quel dannato. Solo che non è stato dio a decapitare quei monti… - aggiunse con ghigno sdentato - ma le compagnie minerarie ed il loro trofeo non sono le cime delle colline, ma il carbone.
Fu così che imparai che se nasci ad Harlan hai una sola possibilità per sopravvivere: fare il minatore. In ogni famiglia di Harlan ce n’è o ce n’è stato uno. Ogni famiglia, lì, ha pagato col sangue quel carbone.
La seconda cosa che mi colpì, quando arrivai ad Harlan… fu lo sguardo delle persone: quelli che vivono ad Harlan hanno lo sguardo spento di chi non crede più nel futuro, eppure, in quello sguardo senza speranza, c’è la luce determinata di chi ha deciso che scaverà con le unghie e con i denti in quelle fottute miniere, e sputerà sangue e tossirà carbone, ma resterà aggrappato a quella vita, per quanto possa essere una vita di merda, fino a che sarà in grado di respirare.
È gente dura quella. Gente che ha imparato cosa vuol dire strisciare nelle viscere della terra e risalire con la pelle impastata di sudore e polvere di carbone… col respiro che è quasi un rantolo e gli occhi che bruciano. Con le braccia e le gambe così stanche che hai appena la forza di darti una sciacquata e cadere sul letto per poi ricominciare tutto daccapo, il giorno dopo.
Ma cazzo, quella è la loro vita e loro ci restano aggrappati, giorno dopo giorno, fino a che da quel letto non si alzano più.
La terza cosa che non dimenticherò mai più, di quando arrivai ad Harlan… è il cimitero dei minatori. E come se quella stessa mano gigantesca di Dio, dopo aver decapitato le montagne, avesse deciso di restituire in qualche modo al mondo, ciò di cui l’aveva privato. E quegli alberi che adesso non crescono più sulle colline… sono diventati una distesa di croci e di lapidi, alla periferia di Harlan.
Ce ne dovrebbero essere molte di più – mi disse un uomo, notando la mia espressione – ma una delle concessioni che ci fa, questa vita, è che in molti abbiamo il privilegio di scavarci la fossa con le nostre mani. In fondo è proprio quello che facciamo mentre estraiamo il carbone… ci seppelliamo, giorno dopo giorno, un po’ più a fondo.
Poi cominciò a ridere. Una risata profonda, rauca… mista a tosse e polvere, che sembrava risuonare come i rintocchi di una campana che suona a lutto. Una risata che ancora sento nelle mie orecchie.
Quel giorno, io che potevo,  lasciai Harlan, per sempre.
Ma qualcosa di me è rimasta lì, insieme a quegli uomini.

Una parola al giorno (o quasi): EREDITA'

Lo leggiamo ormai tutti i giorni, sui giornali.
Succede un po’ dappertutto e tutti pensiamo, ogni volta, la stessa cosa: a noi non potrebbe succedere mai.
Leggiamo di questi uomini incapaci di accettare che la moglie o  la ragazza abbia deciso di abbandonarli, madri che cedono al pianto asfissiante dei propri bambini, vicini di casa stanchi di dover discutere ogni giorno coi vicini…
La casistica è estremamente varia, ma non importa quale sia la storia… ciò che conta è che la conclusione è sempre la stessa: qualcosa scatta, dentro di loro, e uccidono.

Negli ultimi anni stiamo concentrando soprattutto sul femminicidio che viene percepito principalmente come fenomeno culturale.
Probabilmente è vero. Culturalmente – se proprio vogliamo parlare di cultura - il “maschio” un tempo dominante non riesce ad accettare che la donna sia completamente autonoma. Che possa scegliere e che lui possa non essere scelto. In fondo, ‘ste donne sono pur sempre una nostra costola.
A me sembra, però, che accanto a questo perverso fenomeno mentale, compaia sempre, inevitabilmente, un altro determinante fattore che mi fa più paura: il rapporto di forza. Chi è più forte colpisce chi è più debole. L’uomo colpisce la donna. La donna il bambino. Il padre il figlio.
Perché la vita è così. Chi è forte può colpire chi è più debole… e quando ne ha la possibilità lo fa. Non sempre. Ma a volte lo fa. E a volte colpisce duro.

Per fortuna a noi questo non potrebbe succedere mai.
E’ una violenta follia che non ci appartiene. Che guardiamo da lontano come inorriditi spettatori.
Come può, un essere umano, arrivare a commettere un tale orrore, ci chiediamo davanti alla televisione o ai titoli dei giornali.
Come può?
La risposta, secondo me, è molto semplice e abbastanza spaventosa.
L’uomo può, perché dentro in ognuno di noi, c’è un angolo pulsante di scura, violenta, irrazionale e crudele follia.
Un piccolo nucleo di orrore che risale probabilmente alla notte dei tempi. Un grumo in cui sono confluite tutte le scorie, i ricordi, i brandelli che ci hanno portati faticosamente a strisciare fuori dalle caverne e a guardare il cielo. Un cielo che, alla fine, non ci appartiene e non riusciamo a comprendere. Un grumo nero, maleodorante che dorme in noi e che, a volte, si risveglia.
E non sono solo i criminali, i pazzi e i violenti a possederlo. Quel frammento di morte è in ognuno di noi… e dovremmo tutti esserne consapevoli per imparare a tenerlo sotto controllo.
Non sono solo i mariti ubriachi… non sono solo madri psicolabili, non sono solo i reietti a impazzire. Sono le persone tranquille. I vicini sorridenti, i dolci padri affettuosi… che improvvisamente si svegliano, un giorno, con un coltello insanguinato tra le mani.
Sono persone insospettabili, proprio come noi.

Cresciamo cullandoci nella stupida e rassicurante convinzione che Dio ci abbia fatto a sua immagine somiglianza e questo ci fa sentire speciali… e al sicuro. Beh o ci hanno raccontato una menzogna, o Dio è una creatura spaventosa e spietata. In entrambi i casi, c’è ben poco di rassicurante. L’unica cosa certa è l’orrore che dorme dentro di noi e che potrebbe svegliarsi in qualsiasi momento.
L’orrore che tramandiamo di padre in figlio, senza neanche rendercene conto.

Ah dimenticavo… buona festa del papà a tutti.

martedì 18 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): PHISHING

Gentile proprietario dell’account

A causa della congestione in tutti i conti di Fastweb/Tim/Infostrada/Sky e del conto aperto dal vs Salumiere ci stanno rimuovendo tutti gli account inutilizzati.
Fastweb/Tim/Infostrada/Sky (ma soprattutto il salumiere) sarebbe chiudendo tutti gli
account inutilizzati e non confermati.
Questo non va inteso come un gesto di chiusura ma di verifica delle verifiche attualmente in essere, sempreché a voi vi freghi ancora dell’account.
Con la presente chiedo di confermare il vostro account compilando il tuo informazioni di login al di
sotto dopo aver fatto clic sul pulsante risposta. Il tuo account verrà
sospeso entro 48 ore per motivi di sicurezza se si rifiutano di rispondere questo messaggio.
Se al riguardo avete perplessità sulla grammatica e la sintassi da noi/loro in adozione… considerate che noi siamo una compagnia coi contro coglioni. Abbiamo sedi in tutto il mondo, mica solo nella vostra Nazione. Quindi il messaggio in orginale è stato scritto da un monaco tibetano, e poi tradotto con google nella di voi lingua.
 


Questi sono i dati di cui avere bisogno:
* Nome utente:
* Password:
* Data di nascita:
* Paese o territorio:
* numero cell
* Ammontare del Vs Conto in banca
* codice fiscale o partita iva
* taglia di reggiseno (se siete donne)
* dimensione della dotazione bananifera (se siete maschi)
* orientamento sessuale
* data ultima depilazione
* parola chiave (qualunque essa sia)
* il giorno in cui casa vostra è sicuramente vuota, nel caso volessimo mandare una squadra di tecnici direttamente da voi

Dopo aver seguito le istruzioni contenute nel foglio, il vostro account
non sarà interrotto e continuerà normalmente. Solo forse non sarà più solo vostro, ma questo è un dettaglio. Grazie per la vostra attenzione a questa richiesta. Ci scusiamo per gli eventuali disagi.

Cordiali saluti,
Il team


PS. Se non siete avendo un account fastweb/Tim/Infostrada/sky... che campate a fare? E comunque calcolate che da domani, ma forse anche solo tra pochi minuti, Whatsapp/facebook/Skype stando diventando a pagamento. Solo pochi coglion... ehm fortunati saranno venuti graziati se manderano 10.000 messaggi ai loro contatti dicendo che gli piace la mfoca, dimostrando così che sanno come vanno utilizzati i sociual nbetwork che così zuckemberg si piscia sotto dalla gioia e vi regala tutto.

Una parola al giorno (o quasi): CONVINZIONE

La prima volta che vidi Winston Tucker

La prima volta che vidi Winston Tucker fu nel vecchio Saloon di Leroy Brown, nel Kentucky.


Winston stava suonando un pianoforte sgangherato con quel suo sorriso da ebete, mentre gli altri fumavano, chiacchieravano e bevevano nella chiassosa atmosfera del locale. Era una cosa che sapeva fare molto bene Winston... sorridere come un ebete, intendo... perché il pianoforte, a dire il vero, lo suonava davvero uno schifo, ma credo fosse inevitabile con quelle mani callose da minatore che si ritrovava. Non che abbia niente contro i minatori, intendiamoci, è che se hai delle mani come badili non ci puoi suonare il pianoforte, mi sembra ovvio!



Comunque, per farla breve, la prima volta che vidi Wilson Trinkell (o Winston Tinckett, non ho mai capito quale fosse esattamente il suo nome, se devo essere sincero) fu il giorno che ancora oggi viene chiamato da tutti “il Giorno della Grande Sfida”, quando, per intenderci, quelli del ranch WC barrato se la presero con gli uomini del vecchio Ballantine. Grand'uomo il vecchio Ballantine... si dice avesse più di 100 anni, e di certo quella vecchia scorza avrebbe campato altri 10 o 20 anni se non fosse stato per Jason Dillinbrock e la sua fottuta sei colpi!


C'è da dire che era una signora 6 colpi la colt di Jason Dillinbrock, col calcio in madreperla e la canna lucida come argento. Uno spettacolo, sissignore. Fu la seconda cosa che notai appena entrato nel Saloon, subito dopo Wirton Tickenn al pianoforte... ( o Wilson o Winston... bisogna dire che aveva un nome ben strano quel sacripante ) comunque, come entrai, vidi lui col suo sorriso ebete che faceva finta di suonare il pianoforte, e bisogna dire che ci riusciva davvero bene... a fingere di suonare, intendo, perché sorridere gli veniva davvero male, visto che lo faceva sembrare un ebete. Ma come fingeva di suonare perdio! Il suono no, quello faceva pena, per forza, con quelle mani da minatore, ma aveva l'aria di un concertista quel diavolo d'un Worston (o Wilson o Winston), a parte il sorriso da ebete, naturalmente.


E comunque vidi lui, al pianoforte, e subito dopo vidi la pistola di Jason, col calcio di madreperla che gli spuntava dalla fondina. Che spettacolo ragazzi! Si dice che gliel'avesse regalata un vecchio pistolero, a Dodge City. Altri dicevano che l'avesse vinta a poker con una mano dannatamente fortunata... tre re e tre donne, mentre l'altro aveva solo un tris d'assi. Comunque, vinta o regalata che fosse, era davvero una pistola fantastica quella sei colpi. Così andai al bancone del bar e gli offrii da bere, a Jason Dillinbrock ovviamente, non alla sua pistola. Ci mettemmo a bere quello strizzabudella che servivano nel Saloon... niente di che, intendiamoci... ma dopo che hai attraversato 50 miglia di fottuto deserto anche quello ti sembra un nettare divino, anche se si diceva che il barista, Johnny Mustang lo distillasse personalmente nel seminterrato, usando ogni genere di porcheria per risparmiare. E mentre bevevamo quella robaccia Jason mi raccontò che lavorava per il ranch WC barrato, e fu proprio lui che mi fece notare la mani enormi di Wolton (o Worston, o Wilson, o Winston, a volte mi chiedo se riuscirò mai a ricordarmi quel maledetto nome) e nessuno di noi riusciva a capire come mai non l'avessero ancora mandato via a calci in culo. Voglio dire, suonava davvero male con quelle manone callose! Pestava i tasti del pianoforte come un martello sissignore, proprio come un martello... e poi quel sorriso da ebete! Ma Jason mi fece notare una cosa, che non dimenticherò mai finché campo. Lui buttò giù una sorsata di strizzabudella, emise uno strano rumore con la bocca che non si capiva se era di apprezzamento o di disgusto, ma probabilmente tutt'e due le cose, e mi fece: - è lo sguardo! -.


Io mi girai verso Wurfag, Wolton, Worston, Wilson o Winston e guardai lo sguardo. Ed ecco lo sguardo era quello di uno che ci credeva davvero in quello che stava facendo. E, se beccavi quegli occhi, con quell'espressione a metà tra l'ispirato e l'esaltato, ti dimenticavi del sorriso ebete e perfino di quelle mani che, detto tra noi, erano davvero enormi... e pensavi “Cristo d'un Dio, ecco un pianista coi controcazzi!” anche se poi, in realtà, suonava da far schifo. 


E fu questo che mi spiegò quel giorno Jason mentre chiedevo se potevo tenere in mano la sua colt... mi spiegò che non importa se sai fare una cosa oppure no... l'importante è che tu ci creda davvero, e se lo fai, se ci credi così tanto da imbrogliare anche te stesso, allora è fatta, perchè fregherai anche tutti quanti gli altri!


Non era un fesso Jason, questo bisogna dirlo.


Voglio dire, era cresciuto in Arizona in una capanna di vaccari e non era mai andato a scuola neanche un giorno della sua fottutissima vita. Aveva vissuto per 30 dei suoi 35 anni in mezzo a vacche e merda di vacca... ma era depositario di quella saggezza che impari stando a contatto con le piccole cose...  e con le grandi cacate, e quelle di una mandria sono grandi davvero.


Ecco che tipo era Jason, a differenza di Wilton, che era cresciuto in una grande fattoria, in Virginia ed aveva i modi di un damerino. Si diceva che suo padre possedesse mezzo stato e fosse l'uomo più ricco degli Stati uniti, e che lui avesse studiato con i migliori maestri privati... anche se non lo si sarebbe mai detto a giudicare da quelle enormi e callose mani da minatore. Del resto che fosse un damerino lo si vedeva dal sorriso... solo i damerini sanno sfoggiare quei sorrisi idioti senza sembrare davvero degli imbecilli... e lui lo era senz'altro, imbecille intendo, perché se sei il figlio dell'uomo più ricco del paese non te ne vai a suonare il pianoforte nel più maleodorante Saloon nel Kentucky, no?


Comunque a modo suo sembrava uno contento... Jason, anche se lui questa cosa dello sguardo convinto non era mai riuscito ad impararla ed ogni volta che ci provava assumeva un'espressione da coglione e tutti lo prendevano per il culo. Ed era anche generoso, Jason, perché quando gli chiesi di farmi vedere la sua preziosa 6 colpi col calcio in madreperla, non batté ciglio lui, la sfilò dalla fondina e me la diede... e fu solo un maledetto incidente se nel prenderla partì il colpo che uccise il vecchio Ballantine...


Ora, dovete capire, che anche se quello era il più maleodorante Saloon del Kentucky, era anche l'unico Saloon nel giro di 30 fottutissime miglia... e ci saranno stati 20 o 30 uomini di Ballantine, lì dentro, che come il loro vecchio tirò le cuoia, preso in piena fronte - se non è sfiga questa! Come tirò le cuoia, dicevo, misero mano ai ferri per fare la festa all'assassino. Ecco perché mi affrettai a restituire la pistola col calcio di madreperla a Jason. E lui, per carità, era un bravissimo ragazzo quel Jason, ma gli mancavano i riflessi, perché invece di rinfoderarla subito, restò lì impalato con quella fottuta sei colpi ancora fumante in mano.


Lo crivellarono di colpi, Jason... proprio mentre cercava di indicarmi con l'indice della mano sinistra. Ricordo ancora la sua espressione a metà tra lo stupefatto e l'incazzato, e mi spiace di non essere riuscito a chiedergli scusa... ma mentre moriva, i suoi compari del Ranch WC barrato avevano messo mano anche loro all'artiglieria e in quel Saloon non si capiva più niente, quindi ritenni più opportuno cercare di svignarmela, non so se capite...


E proprio mentre cercavo di raggiungere l'uscita, con i proiettili che fioccavano intorno a me, quel bastardo del barman mi indicò dicendo a tutti che ero stato io, proprio prima che un proiettile vagante gli spaccasse il cuore.


Improvvisamente nel locale calò il silenzio. Se si eccettua il suono del pianoforte, perché una cosa bisogna dirla, anche se quel Werben (o come diavolo si chiamava) suonava da far schifo, una volta che aveva cominciato non lo smuovevi più, nemmeno con le pistolettate. Comunque c'era lui, che suonava, e tutti gli altri, quelli ancora vivi, intendo, che guardavano me... e non sembravano molto ben disposti... così, incassai la testa tra le spalle, e filai, coi proiettili che mi fischiavano intorno. E l'ultima cosa che vidi, mentre me la davo a gambe, fu Wibron Trickest, chino sul pianoforte crivellato di colpi, con quelle manone da minatore sollevate, il sorriso da ebete, e lo sguardo concentrato ed ispirato.


In effetti, la prima volta che vidi Winter Brackett fu anche l'ultima, perché non sono più tornato in quel Saloon di merda.


Ora che ci penso, forse si chiamava Walton...