mercoledì 24 dicembre 2014

Una parla al giorno: NATALE

Sono ventisei anni 2 mesi e 15 giorni che gli do la caccia e, finalmente, l’ho trovato.
Quando ormai non ci speravo più, quando credevo che non ce l’avrei mai fatta e stavo per rinunciare, un tipo, in un bar di Città del Messico, mi ha dato la dritta giusta ed ora, 36 ore dopo, eccomi qui che cammino lungo la spiaggia verso un  vecchio bar dalla tettoia in legno marcito che puzza di salsedine.
E lui è lì.
Mi guarda da lontano e sorride. Il sorriso stanco di chi è consapevole che è stato beccato. Il sorriso rassegnato di chi non ha più la forza di scappare e si lascerà prendere perché, in fondo, lo sapeva che prima o poi questo momento sarebbe arrivato.
Anch’io gli sorrido, e il mio sorriso è altrettanto stanco e rassegnato perché, anche se gli ho dato la caccia per tanto tempo, forse, dentro di me, speravo che questo momento e questo confronto non sarebbero mai arrivati.
Mi avvicino e lo osservo con maggior attenzione. Mi basta guardarlo negli occhi per capire che è proprio lui. Certo,  è dimagrito moltissimo dall’ultima volta che l’ho visto… e il volto è sfatto, consumato. Ha tagliato la barba e si è tinto i capelli, ma è lui, che il diavolo se lo porti! E’ proprio lui!
-         E così mi hai trovato – dice mandando giù della tequila.
-         Già – gli faccio io sedendomi davanti a lui.
Lui mi serve in un bicchiere non troppo pulito. Io lo guardo, mando giù un sorso, poi lo guardo di nuovo.
-         Quindi? Che sei venuto a fare? –
A dire il vero non lo so neanch’io perché sono lì, dopo tutto questo tempo.
-         Volevo guardarti in faccia, immagino…  –
Annuisce solennemente, ma non dice niente e tiene lo sguardo basso, fisso sul sudicio bancone del bar, come se gli mancasse il coraggio di affrontarmi.
-         E volevo, sentire dalle tua labbra che cosa avresti detto per giustificarti… - continuo.
-         E sentiamo… perché dovrei giustificarmi? –
-         Andiamo! Sei andato via, all’improvviso, come un ladro! –
-         E allora? –
-   E allora noi avevamo bisogno di te… cazzo! E tu te ne sei andato come se niente fosse, senza una parola, senza… senza un motivo… - la voce mi si spezza per l’emozione.
Lui finisce la bottiglia con una smorfia di compiaciuto disgusto, poi sospira stancamente mentre ne apre una nuova.
-         Anche se avessi cercato di spiegare, tu non avresti capito… -
-         Che ne sai? –
-         Lo so e basta –.
-         Potevi provare… -
-         Hai ragione potevo, ma non ne ho avuto il coraggio – .
Sorrido scuotendo il capo. Lascio i soldi per la tequila e mi alzo per andarmene. È stato un errore. Tutta questa maledetta storia è stata solo uno sbaglio.
-         Se proprio lo vuoi sapere, è stato per colpa di quelle lettere… - dice lui fermandomi dopo pochi passi. – Lettere a cui non sapevo cosa rispondere –.
-         Che vuol dire? Non c’era niente da rispondere… bastava solo esserci, no? –
-         Tu non capisci. Erano così, piene… di speranza in un mondo che non esiste… erano le lettere di chi crede ancora nelle favole! –
Quest’ultima parola la pronuncia quasi come se fosse una parolaccia.
-         Perché che male c’è nel credere alle favole? – gli chiedo.
-  Non c’è niente di male… ma io non sopportavo più di assecondare questa menzogna –.
-         Ma di quale menzogna parli? Tu esisti davvero… o almeno esistevi, prima di andartene via… -
-         Quelle maledette fottutissime lettere del cazzo! Tu non le hai lette! – continua come se non mi avesse quasi ascoltato - Babbo Natale, quest’anno sono stato buono e vorrei tanto un trenino elettrico… Babbo Natale mi piacerebbe moltissimo ricevere la nuova bambola che fa la pipì… Babbo Natale qui, Babbo Natale lì… ognuno con un’aspettativa diversa. Tutti a chiedermi qualcosa, e finché si trattava di regali, tanto quanto, potevo anche continuare a fare quello che ho sempre fatto… ma quando ti arriva la lettere di un bambino che chiede un lavoro per il padre, o uno che vorrebbe che facessi finire per sempre la guerra nel Darfur, o che trasformassi le mine antiuomo in fiorellini… trasformare le mine in fiori?! Ma ti rendi conto?! –
Lo guardo interdetto.
-         Io… non ce la facevo più a farmi carico di tutte quelle aspettative… e per di più da solo, perché nessuno di voi, mai, ha cercato di darmi una mano a far sì che questa cosa che chiamiamo Natale acquistasse un… senso… –
-         Nessuno ha mai preteso che tu cambiassi il mondo… bastava che rendessi un po’ speciale un solo giorno dell’anno. Solo questo… -
-         E a che serve fare finta che il Natale sia davvero un giorno magico quando il giorno dopo, tutto tornerà come prima? E poi… magico un cazzo! La gente continua a morire di fame anche a Natale, cosa credi? E non c’è niente che nessuno possa fare, nemmeno Babbo Natale! –
-         Ed hai preferito scappare! –
-         Ho preferito scappare, sì… -
-         Lasciandoci senza il Natale… -
Fa un gesto con la mano, che non vuol dire niente e vuol dire tutto.
-         Cazzo vuoi che ti dica… - farfuglia – forse il Natale non è mai esistito –
-         Forse sì, - ammetto, - ma era bello crederci… -
Poi me ne vado, lasciandolo lì, a bere e autocommiserarsi rimpiangendo il passato e ciò che avrebbe potuto essere. L’orologio segna la mezzanotte e solo adesso, guardando il datario, mi rendo conto che è proprio il 24 dicembre, ci sarebbe da ridere, ma non riesco a trovarlo divertente…
-         A proposito – gli faccio – Buon Natale –.
Lui mi guarda, beve e non dice niente… fottuto Babbo Natale del cazzo!

domenica 21 dicembre 2014

Una parola al giorno: COMUNICAZIONE

Questi ragazzi di oggi non parlano più tra di loro. Stanno lì a digitare messaggi sui loro smartphone, ma non si parlano. 
La verità è che il progresso ha ucciso il piacere di comunicare...
Ma cazzo, invece di stare lì a far lavorare nel modo sbagliato i vostri pollici opponibili, sollevate il telefono e par-la-te!

Per esempio fammi vedere che stai digitando:
"nn e possibile k non ti piace justin lui e strafigo io ciò tt i suoi dischi ce lo anche tatuato addosso. Quindi nn esiste, doma vieni con me al concerto, cpt?"


Ok...
Forse il progresso ha ucciso anche il piacere di scrivere...

venerdì 19 dicembre 2014

Una Parola al giorno: SPERANZA

Qualche giorno fa ho fatto una passeggiata per il centro storico. 
Avete presente quelle robe di pastori e presepi che si fanno sotto Natale? Quelle che non sai neanche perché le stai facendo, ma le fai lo stesso pur sapendo che te ne pentirai.
Ecco. Quelle.
In più avevo voglia di portarmi dietro la macchina fotografica nuova per provare a fare qualche foto, perché dopo il mio violento e non corrisposto amore per lo yoyo, e quello che la chitarra, adesso sto cercando di amoreggiare anche con la reflex.
Ebbene sì, sono un amante irrequieto e compulsivo.
Anzi, a questo proposito (quello della reflex non quello della compulsione) volevo rassicurare i turisti: ci si può portare una reflex a napoli, scattare delle foto e ritornare a casa vivi... ve lo giuro.
Comunque, non è di questo che volevo parlare, anche se, in fondo, anche questa tematica ha una sua attinenza con la parola del giorno.
Speranza.
C'è speranza anche per il turista, anche a napoli, anche in mezzo alla folla.
Questa città non è così cattiva come la si dipinge.
Ma torniamo a noi.
Torniamo alle foto.

Mentre camminavo bel bello per San Gregorio Armeno, a un certo punto mi sono imbattuto in una costruzione con i balconi murati.
Uno spettacolo struggente ma di una desolazione unica. E infatti ho pensato subito di scattare una "bella" foto che ho intitolato no future.
Guardando quell'immagine ho pensato che fosse davvero emblematica di uno stato d'animo senza speranza. Finestre e balconi murati sono la negazione di tutto. Della luce, dell'aria, della vita. Cosa c'è di più desolato e desolante? 
Se devo pensare a qualcosa che rappresenti in modo visivo qualcuno che si è arreso, che ha rinunciato a tutto, anche alla speranza, o che in qualche modo ne è stato privato, penso a una finestra murata... per sempre.
Più tardi, però, guardando con maggior attenzione la foto che avevo scattato, mi sono accorto di una cosa che Benigni definirebbe, grandiosa, incredibile e spettacolare: su uno di quei balconi abbandonati sta germogliando dell'erba.

In mezzo a quello scenario di abbandono, di non vita, c'è dell'erba che cresce. E lo fa perché la vita è così, se ne frega della logica, la vita è tenace, è caparbia. Si ostina a sfidare la sorte anche quando ha tutte le probabilità contro.
Tutto questo è... confortante. Almeno per me.
Perché vuol dire che c'è sempre speranza, anche quando non lo vediamo subito, anche quando la nostra sensazione è che davanti a noi ci sia solo un muro di mattoni, invalicabile. Anche quando sembra che ci abbiano tolto perfino la voglia di sperare, a guardare con maggior attenzione, c'è sempre la possibilità di scoprire che la vita ha messo qualcosa, lì, per noi. Per sorprenderci e per farci capire che non c'è mai niente di scontato. 
Ora non lo so. Magari è il Natale che mi fa questo effetto e che mi fa cercare disperatamente di formulare un pensiero ottimistico anche laddove non ce ne sarebbe alcun motivo. Ma, proprio perché è natale, mi sembra che questa considerazione e questa foto sia perfetta per fare a tutti voi i miei auguri.
Spero che, in qualsiasi momento doveste trovarvi davanti a un balcone murato, abbassando (o alzando) lo sguardo, possiate accorgervi che sta crescendo dell'erba e quell'erba siete voi.
Buon natale.






martedì 9 dicembre 2014

Il mio zoom è più grande del tuo

Con cellulari, macchinette ultracompatte e altre diavolerie del caso, l’arte (si fa per dire) della fotografia è diventata un patrimonio collettivo.
Il che non è necessariamente un bene… perché tra la semplice operazione dello “scattare” e il capire veramente quello che si sta facendo e come lo si sta facendo, c’è una bella differenza.
Tralasciando l’argomento “selfie” e le drammatiche considerazioni socioculturali che inevitabilmente vi si accompagnano, vorrei soffermarmi, invece, su una questione ampiamente dibattuta e che manda in crisi i novelli fotografi in procinto, eventualmente, di acquistare una macchina fotografica.
E mi riferisco a una questione di importanza vitale per qualsiasi fotografo: la dimensione dello zoom.
Inutile negarlo, qualsiasi fotoamatore, al momento di acquistare la fotocamera che lo accompagnerà nelle epiche imprese che lo attendono, si concentra quasi unicamente su due parametri, i megapixel e lo zoom. Come se questi fossero gli unici due fattori in grado di garantire la qualità di una foto.
la Fuji vista dalla Nikon
Ma mentre i megapixel, bene o male, ormai te li tira in faccia anche con una certa sufficienza qualsiasi produttore di videocamere, lo zoom, o meglio il superzoom, è ancora un requisito quasi elitario.
Al di là di ovvie considerazioni sullo zoom come sublimazione del pene e l’evidente orgoglio di ogni fotografo nello sfoggiare le dimensioni del proprio zoom, quello che ci interessa, nel caso specifico, è la qualità delle immagini.
Molti pseudofotografi come me, che si dilettano con risultati anche discutibili utilizzando modelli più o meno economici, ma iperdotati, al momento di valutare un possibile salto di qualità con il passaggio alle blasonate reflex, si fanno bloccare proprio dall’annosa questione dello zoom.
Mi spiego.
Che le Reflex siano qualitativamente superiori alle bridge o alle compatte è un dato di fatto assodato e scontato.
Ma lo zoom?
Dice il fotografo provetto: Io non voglio diventare Cartier Bresson, ho esigenze molto più terra terra. Mi basta fare scatti bellini, immortalare i miei figli durante la partita di calcetto, qualche animale qua e là… insomma, cose così. Con tali esigenze anche un cercopiteco di Brazzà si renderà conto che avere a disposizione un “grande” zoom è comodo. Molto comodo.
la Nikon vista dalla Fuji
Ed ecco, dunque, tristi omini armati di macchina fotografica, confrontarsi orgogliosamente: la mia bridge ha un 30 x… la tua reflex quanti x ha?
Una delle domande che ricorrono più frequentemente sui forum è proprio questa: Ma se io volessi prendere una reflex, per avere uno zoom di pari ingrandimento, che dovrei comprare? Un cannone da 6000 euro? E chi ce li ha? No grazie, mi tengo la bridge. Sarà qualitativamente inferiore ma il mio zoom è più grande del tuo. Se devo fotografare mio figlio che si tuffa, mentre sono comodamente steso sotto all’ombrellone la mia bridge col suo fottutissimo 30 x farà il suo sporco lavoro.
Orbene… essendo passato attraverso lo stesso dilemma. Avendo passato notti, lacerato dal dubbio e roso dall’incertezza, sono qui a scrivere queste poche righe a vantaggio di tutti quelli che si trovano nella mia condizione, perché possano trarre vantaggio dalla mia esperienza.
Per prima cosa sappiate che 30 x non vuol dire che lo zoom ingrandisce di 30 volte, ma indica il rapporto tra focale minima e massima. Vale a dire che se la vostra Bridge ha una focale che varia da 24 a 720 mm equivalenti (come la mia), dividendo 720 per 24 otteniamo il famigerato 30X che è dunque un valore che, tutto sommato, non ci serve a un cazzo, almeno per quel che ci interessa, vale a dire valutare il massimo ingrandimento prodotto dalla nostra bridge.
Quello che ci interessa, in realtà, è il valore di focale massima, 720.
Beh porca vacca zozza, ma 720 mm è un cacchio di valore. Uno zoom tamron 150-600 mm per fare un esempio economico, costa 1200 euro, al quale bisogna aggiungere il corpo macchina… insomma per avere una focale che mi garantisca l’ingrandimento della mia bridge dovrei spendere sui 2000 euro. Non me lo posso permettere, mi tengo la mia bridge e il mio 30 x.
Il fatto è che quando scattate con la vostra bridge alla massima focale avrete un risultato qualitativamente abbastanza scadente.
La luna fotografata con Nikon D7100 e Tamron 70-300
Se prendete uno zoom 70-300 sempre della tamron e scattate la stessa foto, e la ingrandite fino a raggiungere l’ingrandimento prodotto dallo zoom della bridge, avrete una qualità e un dettaglio superiori. 
La luna fotografata con una fujui hs33 - 30x
Il che vuol dire che se la vostra esigenza primaria è fotografare cose piccole, lontane e ingrandirle, avrete un risultato migliore con una reflex e un 300 mm, piuttosto che con una bridge dopata e dotata di superzoom.

In più la reflex vi garantisce un universo di possibilità e di qualità che la bridge neanche si può sognare.
A puro titolo dimostrativo, potete vedere due foto della luna (che è un soggetto piuttosto distante) scattate con la bridge e con la reflex… valutate voi la differenza.
Ora, chiariamoci. La Reflex costa di più, su questo non ci piove. Però, non c'è bisogno di comprare obiettivi costosissimi per confrontarsi col 30x di molte compatte. Quindi, prima di fare acquisti, valutate bene...

domenica 23 novembre 2014

Una parola al giorno (o quasi): BLACK FRIDAY

« Non capisco... » disse Chuculain fissandomi con il suo sguardo leggermente stolido. 
« Cos'è che non capisci? » risposi pazientemente « è una cosa normalissima, si chiama Black Friday e serve per incentivare le vendite... » 
« Se una cosa ha un prezzo... beh ha un prezzo! » rispose lui con aria ottusa, ma convinta. 
« Ma non è detto, ci sono i saldi, le offerte promozionali, i buoni sconto... » 
Lui scosse il capo caparbiamente e si fece leggermente minaccioso. « Io non ne so niente di queste diavolerie, so solo che se vado dal fabbro da cui ho comprato una spada la settimana prima, e vedo che adesso la vende a metà prezzo, lo uccido con le mie mani! »
Deglutii a fatica. « Ecco, diciamo che il libero mercato non prevede l'omicidio, almeno non come prima ipotesi. Ci sarebbe l'associazione consumatori eventualmente... » 
« E se vado dal fabbro, che la settimana prima mi aveva fatto un prezzo, e adesso invece vuole il doppio dei soldi... io gli sbatto l'incudine in testa finché non muore! » 
« Credo basti una volta... » 
« Quello che è! » 
« Ok Cu'... capisco il tuo punto di vista. Ma qui da noi funziona così... » mormorai cauto. 
« Non mi piace qui da voi, voglio tornare a Emain Macha! » protestò assumendo un'aria imbronciata da bambino. Un bambino alto quasi due metri in grado di seminare morte e distruzione come se niente fosse. 
« Ci sto lavorando Cu'! » esclamai frustrato « come ho già detto l'incantesimo di ritorno presenta qualche... uhm... complessità. Ok? Adesso concentriamoci sul Black Friday... ripeti quello che ti ho spiegato per favore. » 
« Da domani e per tutta la settimana, il tuo libro costerà solo 1,99 » ripeté il colosso celtico, « per poi tornare al suo prezzo... » mi guardò incerto « posso dire una cosa? » 
« Vai. » 
« Se fossi uno di quelli che vogliono comprare il tuo libro, per questo giochetto del prezzo prenderei l'incudine e te la spaccher... » 
« Non abbiamo incudini qui! » tagliai corto.

lunedì 22 settembre 2014

Una parola al giorno (o quasi): DOLORE

Anno 1187.
La marcia suicida dell’esercito Cristiano verso Tiberiade sta per infrangersi contro l’esercito di Saladino, nei pressi di Hattin.
Fa caldo. Dannatamente caldo. I crociati e le loro cavalcature muoiono di sete.
Due chilometri circa di uomini e armature cotti dal sole e soffocati dal fumo degli incendi appiccati sopra vento dai mussulmani.
L’unica speranza, per sopravvivere, è infrangere il muro dei soldati mussulmani e raggiungere le fonti di Hattin. L’unica acqua a porta di mano.
Ma Saladino questo lo sa molto bene, il suo esercito è disposto in posizione strategica proprio per impedire che i crociati raggiungano l’acqua.

A questo punto, quando tutto sembra perduto, il conte Raimondo III di Tripoli comanda una coraggiosa quanto folle carica di cavalleria per cercare di rompere lo schieramento nemico e aprire la strada all’esercito cristiano.
Raimondo carica…
L’esercito mussulmano si apre, lo fa passare senza colpo ferire e si richiude, impedendogli di tornare indietro.
E' quasi mezzogiorno. 
Il pomeriggio la battaglia si era conclusa con la disfatta dei crociati.

Anno 1187. Hattin.
Il conte Raimondo III di Tripoli ha sete. Una terribile sete che lo sta divorando. Ma non è quello il suo problema. Il suo problema è il dente del giudizio che gli sta facendo a pezzi la mandibola. Come abbia fatto a cariarsi è un mistero, visto che è completamente incluso. Ma Raimondo tutte queste cose non le può sapere. Non ha idea di cosa sia un'ortopantomografia nè sa alcunché sui denti del giudizio. Sa solo che il dolore lo sta facendo impazzire, che è come se qualcuno gli stesse trapanando il cervello. E poi c’è il fumo dei fuochi che i mussulmani hanno accesso, e che il vento spinge contro di loro.
Ogni colpo di tosse rimbomba come una cannonata nella sua testa. Una fitta lancinante che va al dente e dal dente torna indietro, centuplicata, irradiandosi verso l'alto.
Il dolore ormai è tutto ciò che Raimondo percepisce.
Così, quando gli sembra che la mandibola sia ormai destinata a spezzarsi in due, e che l'occhio destro stia per schizzargli fuori dall'orbita, spinto da male oscuro che si trova nella sua bocca, perde il controllo e decide che, invece di morire lì, ucciso dal mal di denti, preferisce farsi ammazzare dai mussulmani. 
Ecco perché ordina la carica.
Quando l’esercito avversario si apre inaspettatamente, davanti a lui, gli sembra impossibile. 
Che sia una visione causata dal dolore?
Solo dopo, quando ormai è passato, e non può più tornare indietro, si rende conto che i mussulmani lo hanno giocato e che, quindi, non morirà in battaglia... il mal di denti continuerà a perseguitarlo.
Qualcuno dei suoi uomini, incredulo, lo guarda mentre galoppa, scosso dai singhiozzi.
Qualcuno dei suoi uomini, pensa che stia piangendo per i compagni rimasti tra le mani dei mussulmani. per la battaglia perduta. per il destino della cristianità...

Quel qualcuno, probabilmente, non ha mai avuto mal di denti.

domenica 14 settembre 2014

Una parola al giorno (o quasi): AMORE

L'amore.

Parliamo d'amore, facciamo l'amore... e pensiamo all'amore.
Anche adesso. Siamo qui, tu, io e l'amore.
In questa stanza. Su questo letto.
I nostri corpi nudi, e l'amore.
I nostri corpi nudi, allacciati, intrecciati, uniti. I nostri corpi, che sull'amore di certo ne sanno più di noi. Anche se tu dici che non è così. Che l'amore è un'altra cosa.
Ma mente lo dici mi stringi più forte e il tuo respiro si fa più affannoso.
L'amore è un'altra cosa... sussurri, ansimando. E intanto i tuoi baci si fanno più selvaggi.
L'amore non c'entra con tutto questo...
E intanto premi il tuo corpo contro il mio. 
E io ti cerco con le mani e con la bocca. E penso che forse sì, hai ragione. Forse esiste un universo, da qualche parte, in cui come dici tu, l'amore è un'altra cosa.
Ma non qui e non adesso.
Qui l'amore siamo noi. E i nostri corpi nudi. E le nostre lingue. E i nostri respiri. E il nostro tutto che si fonde e si sfoca e sbiadisce nella notte...
E se poi fosse vero, quello che dici... perché mi chiederesti di continuare, di non smettere?
E perché io continuerei se non per amore?

Anche perché lo sai, dopo un po' di tutto questo amore... che è davvero tanto, io preferirei giocare con la playstation...

venerdì 5 settembre 2014

ADDIO

Mentre salivano lungo il crinale occidentale della Moher Hill, Fergus fece vagare lo sguardo sulla pianura sottostante, riarsa dal sole: erano quasi due mesi che non pioveva.
Neanche una goccia di maledettissima acqua.
I campi si erano inariditi, i boschi si erano seccati, tutta la terra a sud delle montagne stava agonizzando lentamente… e i suoi abitanti con essa.
Fergus alzò lo sguardo verso l'alto asciugandosi il sudore che gli imperlava la fronte.
Il sole, nel cielo, brillava come al solito: arrogante e indifferente.
Era ancora presto, eppure il caldo afoso si era già disteso sulla regione stringendola nel suo abbraccio soffocante.
Fergus avrebbe dato chissà cosa per un po' d'ombra, ma il pendio era scosceso e privo di vegetazione. Se avesse potuto scegliere, sarebbe salito dall'altro lato. Lì qualche eroico albero resisteva ancora con ostinazione, offrendo un minimo di riparo, ma lo straniero incappucciato aveva troppa fretta e non aveva voluto sentir ragione.
«Se la strada più breve è da ovest, da lì andremo» aveva detto.
Fergus aveva cercato di obiettare, ma alla fine era lui a pagare. Venti pezzi d’argento per raggiungere la vetta della Moher Hill, e altri dieci per scavare una fossa. Trenta pezzi d’argento in tutto.
Per una somma del genere Fergus ne avrebbe scavante venti di buche, e ci avrebbe seppellito i genitori, senza battere ciglio, quindi... adesso gli toccava arrancare sotto il sole, col sudore che gli infradiciava la casacca.
Benché fosse lui a conoscere la strada era l'altro, l'incappucciato, a fare l'andatura. Un'andatura fin troppo veloce per i gusti di Fergus che, dopo un po’, aveva cominciato a pensare ad altro nel tentativo di ignorare quel sole bastardo che gli alitava addosso il suo calore appiccicoso.
In fondo, era solo una mezza giornata di lavoro. Mezza giornata e se ne sarebbe tornato con un bel gruzzolo. Soldi buoni, conio delle isole. Argento di qualità che avrebbe potuto spendere nella locanda del vecchio Forst, bevendo birra gelata, e affondando la barba in mezzo alle tette di Emma Walton.
Non era bellissima Emma. Il vaiolo le aveva preso la giovinezza fin da piccola, facendosi pagare in anticipo e con gli interessi, ma aveva gli occhi azzurri che brillavano come gemme nella notte e quelle tette gigantesche e sode con cui ti lasciava fare un po' di tutto, per il giusto prezzo.
Fergus si asciugò nuovamente il sudore aggiustando la posizione della vanga che portava sulla spalla.
Il terreno secco, sotto i suoi piedi, si lamentava ad ogni passo. Ma oltre quel crinale, oltre quella fossa da scavare, oltre quel sole cattivo, c'era una lunga notte di bevute e di sesso.
A questo doveva pensare.
E con Emma finalmente sotto di lui, tutto sarebbe stato più accettabile, anche quello schifo di vita e il ritorno a Conbor County.
Se n'era andato quando? Due o tre anni prima, per non fare la fine di suo padre.
Se n'era andato con l'arroganza di chi sa già tutto e ha un piano ben preciso per cambiare completamente la propria vita. Se n'era andato con uno zaino pieno di gallette rancide, una borraccia di sidro e tante certezze. Forse troppe…
Del resto, si era detto, tutto era meglio che fare il contadino come suo padre.
Lo vedeva come si ammazzava di fatica, ogni giorno a lottare con quella terra infame che non regalava niente. Ogni sacrosanto giorno a sgobbare come un mulo per cercare di trarne qualcosa di commestibile. A sbuffare sulla zappa, a imprecare per la grandine, o per la siccità, o per i parassiti. Con la schiena spezzata, la pelle bruciata e calli così grossi sulle mani che, in quei rari momenti di umanità, quando il torpore della fatica si ritirava quel tanto perché il vecchio si ricordasse di avere un figlio, azzardando una goffa carezza, Fergus si era sempre sottratto pensando che quelle mani non potevano appartenere a un essere umano, che dovevano essere per forza a un troll.
Io non sarò mai come lui, si era detto, fin da piccolo. Io non la voglio fare questa vita.
Per fare il contadino devi essere o troppo forte o troppo debole. E Fergus non aveva né la rassegnazione del padre, che era in grado di subire dalla vita i calci più duri e spietati, senza neanche formulare un vago pensiero di ribellione. Senza osare immaginare anche solo l'idea di una vita migliore. Né la forza eroica di sua madre, che si era sposata con quell'uomo e gli viveva accanto sostenendolo da chissà quanti anni. Che aveva visto la propria giovinezza dissolversi nel giro di un paio di stagioni, e trasformarsi in una durezza granitica, contro cui tutto si infrangeva, la morte del primogenito per la febbre nera, la perdita della stalla per l'incendio, la perdita della speranza, quando il suo uomo si era progressivamente incurvato sotto la fatica fino a trasformarsi in un'ombra che andava e veniva dai campi, senza più alcuna espressione negli occhi.
Morto dentro, già da chissà quanto, mentre il suo corpo si trascinava avanti, più per abitudine che per volontà.
Tutto questo avrebbe dovuto consumarla dentro. Invece sua madre si svegliava col sorriso ogni mattina. Perché ogni nuovo giorno era un nuovo giorno, regalato dagli dei a chi sapeva credere ancora in loro. E anche se lei aveva poco più di niente, anche quel “poco più di niente” le bastava, perché lei amava la vita per ciò che era, nonostante ogni giorno fosse impastato del sapore acre e amaro della morte.
Fergus non ne era sicuro, ma probabilmente era stato più a causa sua, che non per la debolezza del padre, se aveva deciso di andarsene. Se un giorno si era reso conto che poteva accettare tutto tranne quella inutile e innaturale vitalità della madre.
E comunque, anche se le cose erano andate com'erano andate, non rimpiangeva niente: almeno lui ci aveva provato!
Certo, era partito con altre aspettative.
Aveva dei sogni lui, mica come gli altri falliti del paese, a cui bastava sopravvivere. Lui era uno che il cervello lo sapeva far funzionare.
Stava per succedere qualcosa ad est. L'Elagon e il Lagin si stavano contendendo un pezzo di terra, come cani selvatici con un osso di pollo.
A lui non gliene fregava niente delle complicate beghe dinastiche. L'unica cosa chiara, in fondo, era che sia dall'una che dall'altra parte potevano far valere una linea di successione debole, ma inconfutabile. Avevano gli stessi diritti e nessun desiderio di trovare un compromesso, il che poteva voler dire una sola cosa: guerra. E quando c'è la guerra c'è possibilità di arricchirsi, se si è abbastanza spregiudicati.
Naturalmente Fergus non aveva nessuna voglia di combattere. Non era uno stupido e non inseguiva la gloria.
La gloria va bene per i nobili, che hanno già avuto tutto dalla vita e possono morire nel fango inseguendo qualcosa di completamente inutile.
La gloria è per gente che non ha mai dovuto lottare per sopravvivere.
Lui era un uomo pratico. Gli interessava altro... i soldi, la vita facile, qualche comodità, e le tette di Emma Walton.
Però la guerra offre molte opportunità anche a chi non vuole combattere. Basta avere un po' di intraprendenza… e non avere paura di sporcarsi le mani.
Fergus questa paura non l'aveva mai avuta.
Meglio sporcarsi le mani così, che raccogliendo il letame delle vacche, si diceva.
Così era andato all'est, dove la guerra si stava lentamente insinuando nella testa e nei cuori delle persone, come qualcosa di assolutamente inevitabile. Dove si respirava odore di violenza e di morte e gli sguardi delle persone si erano già induriti di cattiveria e di odio.
Era andato a est per cambiare la propria vita e giocarsi il tutto per tutto con il contrabbando e il mercato nero.
Ma la guerra - che pure tutti aspettavano - era divampata improvvisa, più velocemente di quanto si aspettasse, e lui ci si era ritrovato in mezzo finendo per perdere tutto il carico di provviste che avrebbe dovuto rivendere a peso d'oro.
Se era ancora vivo, probabilmente, lo doveva solo a Owein dei Corvi, che aveva guidato i quattro straccioni della milizia irregolare del Lagin contro il fior fiore dell'esercito dell'Elagon... e aveva vinto, ricacciando indietro le armate nemiche.
A Fergus non importava niente di Owein, del Lagin, dell'Elagon. Tutto quello che gli importava l'aveva perso cercando di guadare lo Shannon in piena. Gli restavano solo la rabbia, una daga corta, e il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere, se...
La Guerra era finita com'era iniziata e lui era rimasto con un pugno di mosche. Così aveva fatto quello che poteva. Qualche lavoro sporco ai danni di questo o di quello. Sempre roba su commissione, pagata di nascosto, nell'ombra di qualche bettola, con contrattazioni sotto voce fatte di sguardi furtivi e parole crudeli, prive di compassione.
Ma gli uomini con cui aveva avuto a che fare, laggiù, erano il peggio della feccia sopravvissuta alla guerra. Erano gente che aveva perso la propria umanità sul campo di battaglia, o strisciando lontano da esso in fin di vita.
Fergus non era come loro, anche se per un po' aveva finto di esserlo.
Aveva giocato al loro gioco per disperazione, ma non aveva retto fino in fondo. Evidentemente non aveva perso abbastanza sul fondo melmoso dello Shannon...
E così alla fine era ritornato.
Le parole erano proprio quelle. Gliele aveva dette Emma Walton quando lo aveva visto entrare nella locanda del vecchio Forst.
Lo aveva guardato con quei suoi occhioni grandi e celesti e poi gli aveva detto: «E così sei tornato...»
Lo aveva detto a bassa voce, ma a Fergus era sembrato un urlo. Quindi aveva annuito appena, cercando di ingoiare il fastidio che gli stringeva la gola. Cercando di masticarlo e ingoiarlo, quel fastidio, e spedirlo giù dove avrebbe fatto ancora male, ma dove nessuno avrebbe potuto vederlo.
E così sei tornato”.
In fondo non si trattava che l'enunciazione di un dato di fatto.
E così sei tornato”.
Una verità incontrovertibile che pure suonava come un'accusa e una condanna.
Era andato via, solo un paio di anni prima, con le spalle larghe, il torace gonfio, l'aria sprezzante... ed era tornato curvo, impolverato, segnato... sconfitto.
E non ci sarebbe, in fondo, niente di male nella sconfitta. Se hai lottato fino alla fine, la sconfitta è nelle cose della vita.
Ma tutti ricordavano fin troppo chiaramente quello che aveva detto qualche giorno prima di partire. Quando aveva sputato la sua inappellabile sentenza su tutta Conbor County.
E la gente lì, poteva non avere orgoglio, come aveva detto lui, ma aveva senz’altro memoria.
Era per questo motivo che Fergus aveva esitato così tanto, prima di ritornare.
Perché sapeva che avrebbe avuto quegli occhi addosso e perché la sconfitta è nelle cose della vita, è vero, ma è comunque un marchio che ti porti dietro per sempre, e la compassione si vela sempre di biasimo, dopo un po', soprattutto se l'ultimo ricordo che hai lasciato, alle tue spalle, è stato uno sprezzante proclama di superiorità.
Ecco perché si era aggrappato a quel carico con tutte le sue forze, cercando disperatamente di strapparlo al fondale fangoso dello Shannon, rischiando quasi di affogarci, in quell'acqua marrone. Ecco perché... strisciato nei bassifondi di Navan Fort, aveva mentito, rubato, ucciso e fatto tutto il possibile per cercare di recuperare almeno una parte di quanto aveva perso, fino a che non si era dovuto arrendere all'evidenza del proprio fallimento.
Così si era preparato un bel discorso su quanto la vita faccia schifo e si diverta a prendersi gioco delle persone, punendo senza pietà chi cerca di alzare la testa e di trascinarsi fuori dal fango della miseria.
Di come il destino se ne fotta dei sogni e dei desideri degli uomini, e giochi con le loro vite come se fossero pedine di Fidchel. Perché, alla fine, la verità è che i poveracci devono restare poveracci, devono morire nel proprio sudore, spezzandosi la schiena senza neanche provare a cambiare la propria sorte, e se ci provano vanno ricacciati nel fango con la forza.
La vita, Fergus ormai ne era convinto, era solo uno scherzo cattivo… e solo la morte, che incuteva tanto timore, dimostrava in realtà un po' di amore per quelle patetiche creature che tanto si affannavano sulla faccia della terra, rendendo tutti uguali nel suo ultimo abbraccio.
Era un discorso per certi versi anche sensato, costruito con molta attenzione, ma alla fine, in ognuna delle parole che lo componevano, si poteva leggere la verità; e la verità era che aveva fallito e che, per quanto elaborate, le sue parole di scusa non potevano ingannare nessuno.
Fergus se ne era reso conto quando aveva incrociato il carrettiere che portava il grano Conbor County al castello di Waterford.
Amish Reed, così si chiamava il vecchio. Era stato il primo volto familiare incontrato da Fergus sulla via del ritorno.
«Che ci fai qua?» gli aveva chiesto, sputando a terra un grumo di catarro.
Fergus aveva tirato un lungo sospiro e gli aveva sciorinato tutta quella litanìa di scuse così meticolosamente preparate, e mentre lo faceva si era sentito come probabilmente doveva apparire ad Amish: un patetico buffone.
Così, quando Emma lo aveva guardato con quei suoi occhi celesti, feriti, e gli aveva detto: «sei tornato, alla fine...» Fergus non aveva risposto. Gliene era mancato il coraggio. Si era limitato a incassare la testa tra le spalle e ad andarsi a sedere il più lontano possibile, cercando di mimetizzarsi tra le panche di legno e i tavoli segnati dall’usura.
Lì lo aveva trovato lo straniero incappucciato.
Era un tipo di poche parole quello, uno riservato. Ma anche così, anche se si nascondeva dietro ad un cappuccio e un silenzio fatto di monosillabi, una cosa era chiara: veniva da fuori e sotto la polvere che ricopriva quasi interamente il pesante mantello nascondeva una tunica di tessuto pregiato, una cintura ornata di finiture preziose e modi da gran signore.
Non era difficile immaginare la sua provenienza. Doveva essere un secondo o terzogenito di buona famiglia, forse il bastardo di qualche lord del sud, ben educato, molti soldi, quell’aria di superiorità del cazzo di chi, a casa sua, era abituato a comandare. E aveva un segreto da nascondere.
Non c'era altro motivo per tenere quegli occhi seppelliti nel cappuccio, soprattutto con quel caldo.
Gli occhi di una persona sono tutto, diceva sempre il padre di Fergus.
Tu guarda la gente negli occhi e saprai cosa aspettarti da loro.
Non fidarti di chi non regge il tuo sguardo.
Così diceva suo padre.
A suo padre sarebbero piaciuti gli occhi di Emma, con quel celeste accesso così sincero. Due occhi così belli e profondi che quasi ti facevano dimenticare la pelle rovinata dal vaiolo.
E, ovviamente, lui non avrebbe mai accettato un lavoro offerto da uno che teneva i suoi occhi sempre nascosti nell'ombra di un cappuccio, anche quando, fuori, il caldo ti soffocava e ti stringeva la gola.
Ma suo padre non capiva nulla. Lui non era mai tornato sconfitto, perché non era mai andato da nessuna parte. Era solo un contadino zappaterra, e probabilmente questa siccità lo stava uccidendo come stava uccidendo tutto il paese,
Lui non avrebbe mai accettato quel lavoro... e sarebbe morto.
Fergus sarebbe sopravvissuto ancora una volta, come aveva sempre fatto. Come aveva fatto in mezzo a quella guerra di ricchi bastardi. Come aveva fatto in mezzo alle acque dello Shannon. Come aveva fatto nei sobborghi puzzolenti di Navan Fort, dove aveva mangiato carne di topo e chissà cos’altro pur di non morire di fame.
Fergus era uno che non moriva.
Questo era quello che contava.
Quanto al forestiero, non diceva tutta la verità questo era evidente. Non era il mercante che diceva di essere, e forse portava guai... ma pagava molto bene, e per Fergus era più che sufficiente.
Con quei soldi si sarebbe pagato qualche notte con Emma.
Era sicuro che del buon argento e qualche parolina dolce avrebbero fatto sparire quel broncio e gli ultimi strascichi di rancore dal suo sguardo corrucciato.
Perché ce l’avesse così tanto con lui, poi, restava un mistero, anche se, in realtà, Fergus un’idea se l’era fatta.
Era stato poco prima della sua partenza.
Una sera di quelle fredde e umide… quando la siccità era ancora lontana e inimmaginabile.
La pioggia cadeva da giorni, e i sentieri erano così infangati da sembrare ruscelli di fango.
Tornare a casa con quello schifo di tempo era impensabile. Così Fergus si era rintanato nella locanda del vecchio Forst, aveva ordinato tre o quattro boccali di ippocrasso e aveva fatto sedere Emma sulle ginocchia.
Poi, mentre il vino gli scaldava lo stomaco, aveva lasciato che il contatto del bel corpo tondo e sodo di Emma gli scaldasse l’anima… l’aveva mordicchiata sul collo mentre con le mani esplorava ciò che Emma nascondeva al di sotto della gonna.
Lei un po’ l’aveva lasciato fare, ridendo divertita, un po’ si era ritratta guardandolo con quegli occhi celesti, ben sapendo che Fergus non riusciva a restare indifferente a quello sguardo.
Così avevano mercanteggiato un po’, come al solito, solo che quella notte Fergus era proprio a corto, e gli mancavano dieci pezzi di rame per raggiungere la cifra necessaria.
Dieci monete di rame che facevano la differenza tra un ritorno a casa nel fango, sotto la pioggia, e una notte tra le cosce calde e accoglienti di Emma.
Che scelta aveva?
Così si era messo a fare il cretino, sbaciucchiandola e dicendole parole dolci come il miele a proposito del fatto che lei era speciale e che tra loro due c’era qualcosa di diverso che andava al di là degli affari tra cliente e puttana.
Era il solito copione che si ripeteva.
Fergus diceva le cose che andavano dette, fingendo di essere sincero. E lei lo ascoltava, fingendo di crederci.
Alla fine lo aveva preso per mano, sorridendo, e se l’era portato su in camera, con aria complice.
Emma era meglio di una coperta di lana.
Il suo abbraccio e il suo corpo erano morbidi e accoglienti. Il suo respiro era un soffio caldo e passionale. Le sue labbra erano rosse come il fuoco e dolci come marmellata fresca.
Stringerla a sé, baciarla... possederla, mentre lei si avviluppava a lui con le proprie gambe era rassicurante e inebriante al tempo stesso.
Quella notte si era dilatata, mentre il fuoco del braciere scoppiettava in un angolo della stanza, e lei gli aveva permesso di restare fino all'alba, senza nessun sovrapprezzo.
La mattina dopo Fergus l’aveva salutata con un bacio frettoloso e una pacca sulle natiche. Poi, qualche giorno dopo, era partito per inseguire il miraggio di una nuova vita senza darle alcuna spiegazione.
Qualche volta, nei due anni successivi, Fergus aveva ripensato a Emma e si era chiesto se avesse agito bene nei suoi confronti.
Forse avrebbe dovuto spiegarle che se fosse rimasto sarebbe impazzito e che non era per lei, anzi, lei era l’unico motivo per cui sarebbe potuto restare, solo che... non era abbastanza.
Forse se le avesse parlato sinceramente Emma avrebbe capito.
Ma perché avrebbe dovuto darle delle spiegazioni? In fondo era solo una puttana, no?
Non c’era niente, tra di loro, se non qualche bugia detta per aiutarla ad allargare le gambe.
Qualche bugia detta in modo troppo convinto ma… faceva tutto parte del gioco, e lei lo sapeva. Lei, avrebbe dovuto saperlo, cazzo!
Cosa aveva creduto? Che il giorno dopo lui avrebbe parlato col vecchio Forst chiedendogli la mano della figlia? Che si sarebbe portato a casa la puttana della locanda?
Certo, a pensarci bene, era possibile che le avesse promesso qualcosa del genere, ma era stato il vino a parlare; il vino e la paura di quel freddo così simile alla morte.
Fergus annuì tra sé e sé.
Glielo avrebbe spiegato, quella sera stessa, con i soldi d’argento del forestiero. L’avrebbe pagata il doppio, se necessario, e si sarebbe fatto perdonare.
Intanto l’incappucciato aveva affrettato il passo.
Ormai, a poche centinaia di metri dalla cima della collina non era più possibile sbagliare strada e quindi, non avendo più bisogno di aspettare le indicazioni di Fergus per procedere, si era fatto prendere dalla foga.
Per Lugh! Ma non lo sente il caldo? Si domandava Fergus arrancandogli dietro.
Quando arrivarono in cima alla Moher Hill, lo straniero si fermò improvvisamente, come se di colpo le energie che lo avevano sostenuto durante la salita fossero venute meno.
Fergus gli si affiancò. Fece scivolare giù la pala, dando un po' di sollievo alla spalla che l'aveva sostenuta fino a quel momento e lo guardò.
«Dove dobbiamo scavare?»
«Non lo so» rispose l'incappucciato.
Fergus lo guardò incredulo.
«Che vuol dire?»
«Vuol dire che non lo so» ribadì l'altro.
Fergus provò una sorta di rabbia sorda e pulsante che si concretizzò nel desiderio di spaccargli la faccia con il badile. Tuttavia il desiderio restò tale senza trasformarsi a sua volta in azione. Fergus rimase lì, con le mani serrate sull'asta di legno, in attesa di una spiegazione.
«Ci dev'essere della terra smossa, da qualche parte qui intorno» spiegò il forestiero. «E’ lì che dobbiamo scavare...»
«Della terra smossa...» ripeté Fergus a mezza voce, cercando di dare un senso a quelle parole.
«Proprio così, della terra smossa. E prima la troviamo, prima scaviamo e prima avrai i tuoi soldi» tagliò corto il forestiero avviandosi. «Quindi togliti quell'espressione da idiota dalla faccia e datti una mossa...»
Fergus ingoiò la rabbia e gli andò dietro.
Una caccia al tesoro, pensò, mi ha portato sulla cima della Moher Hill per farmi fare una stramaledettissima caccia al tesoro, sotto al sole...
Ecco perché non era voluto venire al tramonto, col fresco. Cercare la terra smossa alla luce delle torce avrebbe avuto senso quanto cercare di prosciugare le acque dello Shannon a sorsate. Cosa che Fergus aveva quasi cercato di fare, senza molto successo.
Quando finalmente trovarono il loro obiettivo, il forestiero si fermò un'altra volta, immobile, con lo sguardo - se ce n'era uno al di sotto di quel cappuccio - puntato su quella ondulazione del terreno, quasi ne avesse paura.
Fergus si chiese cosa fosse seppellito lì.
Cosa aveva spinto quello strano uomo a inerpicarsi sotto al sole e a offrirgli ben trenta monete d'argento per scavare una fossa?
Che poteva esserci di così importante, su quella collina dimenticata da Dio e dagli uomini?
Dei soldi? Il bottino di qualche rapina? Un vecchio tesoro dei predoni del Nord o, addirittura, qualche cimelio degli elfi, che erano vissuti lì cinquecento anni prima?
Un'arma? Una spada dall'elsa finemente intarsiata e dalla lama incisa con i caratteri runici del potere?
Fergus aveva fantasticato molto sul contenuto di quella fossa e su come si sarebbe comportato una volta disseppellito l'oggetto misterioso.
Erano soli, lì in mezzo al nulla.
Nessuno sapeva di loro.
Nessuno sapeva di lui.
Una volta dissotterrato il tesoro, la fossa sarebbe stata già lì, pronta ad accogliere il suo nuovo occupante, e lui sarebbe tornato alla locanda ricco.
Fergus si umettò le labbra pensieroso, saggiando con la mano l’impugnatura della daga che gli pendeva lungo il fianco destro.
Non era un acciaio pregiato, ma sarebbe comunque stato più che sufficiente per uccidere lo straniero… a meno che non indossasse una mezza cotta di maglia al di sotto del mantello e della tunica. Era questo l'interrogativo: lo straniero era un guerriero?
Sarebbe morto in silenzio o avrebbe lottato?
Fergus non era un combattente, era un vigliacco. Non aveva problemi a uccidere qualcuno se ne valeva la pena, ma doveva trattarsi di un colpo facile, veloce e sicuro, perché la presa sulla daga, già lo sapeva, non sarebbe stata salda. E se non avesse avuto successo al primo colpo sarebbe stato lui a morire e quella fossa già pronta, in mezzo alla desolazione della Moher Hill, sarebbe diventata la sua tomba.
Trenta monete d’argento sicure, o la possibilità di un intero tesoro?
Era questo il dilemma.
Se lì sotto ci fosse stato qualcosa di davvero prezioso avrebbe dovuto rischiare. Non aveva scelta.
E una volta ucciso lo straniero, allora forse sì, forse avrebbe potuto perfino mantenere le promesse fatte a Emma Walton.
Perché la verità era che, in tutta la sua vita tormentata e rancorosa, in tutti quei momenti passati a sputare sentenze su suo padre e a immaginare di fuggire da quel letamaio, gli unici momenti di pace, gli unici sprazzi di un qualcosa che, sì, forse avrebbe potuto definire aliti di felicità, li aveva passati nell'accogliente abbraccio di Emma.
Era una puttana, è vero. Del resto lui era un bastardo, bugiardo, ladro e assassino. Non poteva certo permettersi il lusso di giudicarla, ma forse, chi lo sa? Avrebbe potuto amarla...
Forse.
Se l'altro non avesse indossato una mezza cotta di maglia...
Dal passo e dall'andatura che avevano tenuto, lungo tutto il cammino, Fergus avrebbe detto di no.
Era difficile con quel caldo, mantenere un'andatura così spedita.
Ma chi poteva dirlo con certezza?
Alcuni nobili ci passavano la vita con la cotta di maglia addosso, alla fine diventava quasi come una seconda pelle. Alcune maglie erano costituite da anelli così piccoli e così finemente intrecciati da risultare sottili quasi come il tessuto che le ricopriva.
Fu così che Fergus cominciò a scavare con uno stato d’animo incerto.
Non sapeva cosa augurarsi e questa incertezza lo faceva sudare ancor più del caldo.
Poteva essere l’occasione della sua vita… o della sua morte. In entrambi i casi si sarebbe sistemato per sempre.
Forse, tutto sommato, pensò, è meglio che non ci sia niente lì sotto.
Avrò altre occasioni meno rischiose, prima o poi. E comunque, ho abbastanza soldi per comprarmi il perdono di Emma e i suoi baci, per almeno qualche notte…
Alla fine, gira e rigira, il pensiero tornava sempre a lei, a Emma.
Questo era un fatto che cominciava a metterlo a disagio.
Era come se, alla fine, una parte delle bugie che le aveva sussurrato a letto fossero più vere di quanto lui stesso non volesse ammettere.
Non si è mai davvero bugiardi quando si è ubriachi, dicevano i vecchi del villaggio.
Fergus aveva cominciato a capirlo quando le acque dello Shannon si erano richiuse su di lui, togliendogli con gelida cattiveria l'aria dai polmoni e tirandolo giù, verso quel fondo melmoso.
In quel preciso momento, mentre pensava di morire, Fergus avrebbe potuto pensare a qualsiasi cosa. A come aveva umiliato suo padre, prima di andare via, o al sorriso stanco e rassegnato di sua madre, cristallizzato in una smorfia priva di stupore. Al primo uomo che aveva visto morire, impiccato, quando aveva solo tre anni, che forse lo stava aspettando, con quel collo spezzato e storto, dall’altra parte, per fargli da guida o semplicemente per deriderlo. O alla prima donna che gli aveva fatto vedere il proprio fiore e gli aveva insegnato a coglierlo, alla festa di Beltaine.
Avrebbe potuto pensare a suo fratello, portato via dalla febbre nera a cinque anni, o al cucciolo di cane che aveva cresciuto di nascosto, dividendo con lui le scarse provviste di casa, fino a quando, una sera, lo aveva trovato mezzo sbranato da una banshee
Ma l’unica cosa che gli era venuta in mente erano stati gli occhi celesti di Emma Walton, che non avrebbero pianto la sua morte, perché non avrebbe mai saputo che fine aveva fatto.
E alla fine, probabilmente, anche se non lo voleva ammettere, era questo il motivo per cui era ritornato a Conbor County, tra tanti posti, proprio lì, dove tutti avrebbero saputo del suo fallimento. Per rivedere quegli occhi.
La pala urtò qualcosa di duro, immediatamente al di sotto dello strato di terriccio.
«C’è qualcosa…» disse Fergus guardando interrogativamente l’altro.
L’incappucciato lo scostò bruscamente e si inginocchiò ad esaminare le assi di legno appena al di sotto del terreno.
Le toccò, con cautela, quasi con cura, esaminandole con attenzione. Poi si tirò su annuendo.
«E’ questa» disse, «continua ma fai piano».
Fergus continuò a scavare portando alla luce una cassa di legno lunga quasi un metro e settanta.
Una cassa simile ad una… bara?
Su ordine dello straniero scavò tutt’intorno, in modo che l’intera superficie superiore fosse libera. A quel punto, l’incappucciato prese un pugnale e cominciò a scostare le assi che la chiudevano.
Fergus trattenne il respiro in attesa di scoprire il mistero che si celava in quella fossa, scavata sulla cima della Moher Hill.
La mano si strinse istintivamente sull’impugnatura della daga… poi, le assi vennero via e l’incappucciato trasse un profondo respiro strozzato, indietreggiando, quasi l’avessero colpito.
All’interno della cassa c’era una donna.
Era vestita con una tunica bianca, di cotone semplice, privo di qualsiasi ricamo. Aveva capelli biondi lunghi che incorniciavano il volto più bello che Fergus avesse mai visto.
Gli occhi erano chiusi, le labbra, dal colore violaceo, atteggiate in un’espressione di serena rassegnazione.
Una bellezza nobile e tragica che la morte, pur con tutta la sua prepotente violenza, non aveva osato scalfire, limitandosi a cristallizzarla in un’immagine immobile e struggente, per l’eternità.
«Chi…?» balbettò Fergus confuso allentando la presa sulla daga.
«Si chiamava Eleanor ed era la moglie del Duca di Sandish» disse l’incappucciato.
«Com’è morta?» domandò ancora Fergus, incapace di distogliere lo sguardo dalla donna.
«E’ morta d’amore…» rispose lo straniero con la voce velata di un’asprezza nuova, diversa dal solito. «Amore per l’uomo sbagliato…»
Fergus guardò il suo interlocutore sempre più confuso.
«Un miserabile, un uomo da niente… un patetico pagliaccio vigliacco e bugiardo…» nella sua voce adesso c’era una nota di vibrante disprezzo, «le aveva promesso di amarla per sempre… e che non l’avrebbe mai abbandonata. Ma quando il Duca ha scoperto il tradimento ha avuto paura ed è scappato…» continuò l’incappucciato, che adesso non stava più parlando con Fergus, ma rivolgeva le sue parole al vento, alla bara, alla donna che aveva amato e, forse, a sé stesso.
«Il Duca non poteva accettare il tradimento, così l’ha condannata a morte, per impiccagione, in pubblico… e quella nullità dell’uomo che diceva di amarla non ha avuto neanche il coraggio di avvicinarsi a quella piazza, per dirle addio almeno con lo sguardo. Ha avuto paura di cercare i suoi occhi spaventati un’ultima volta… ha avuto paura di essere catturato e di fare la sua stessa fine e quindi è rimasto nascosto, nell'ombra, come un topo. Così lei è morta sola, tradita, anche nella morte, da quel misero omuncolo che le aveva giurato amore eterno…»
Fergus annuì. Adesso capiva tutto.
«Poi…» continuò l’incappucciato, «il Duca ha ordinato che fosse seppellita lontano dai suoi possedimenti, in un posto sconosciuto a tutti, perché nessuno potesse piangerla.
In realtà avrebbe voluto darla in pasto alle banshee, ma era pur sempre sua moglie, era una nobile. Non ha potuto rifiutarle i riti sacri e l’imbalsamazione, quindi l’ha fatta nascondere a tutti… e a me.
Ho dovuto corrompere un po’ di persone, ma alla fine ho scoperto il nome della collina e sono venuto qui per… fare quello che non ho avuto il coraggio di fare in quella piazza: dirle addio…»
Fergus sentì come una morsa al petto. Un misto di dolore e pietà per quella giovane donna e per il suo amante. E per suo padre e sua madre, costretti a vivere quella vita di stenti, e per Emma, che aveva ingannato con quelle sue parole zuccherose.
In quel momento sentì sulle proprie spalle il peso dell’intero universo, che schiacciava verso il basso, senza pietà. Così si inginocchiò e mormorò le parole di una vecchia preghiera.
L’incappucciato era immobile, come una statua di dolore.
Poi una goccia cadde ai suoi piedi. Una lacrima, scivolata dal suo volto nascosto.
Lo straniero stava piangendo.
Fergus lo guardò incerto.
L’altro mise mano alla cintura e gli buttò il sacchetto con le monete.
«Adesso vattene…» disse con voce rotta. «Lasciami col mio amore, lasciami solo…»
Fergus annuì. Indietreggiò, continuando a guardare lo straniero, infine si voltò e si avviò con passo strascicato lungo il crinale.
E mentre Fergus si allontanava, l’incappucciato cominciò a seppellire la donna amata, per dirle addio, a modo suo, sulla cima desolata della Moher Hill.
Fergus infilò il sacchetto di monete al sicuro, all’interno della tunica. Erano solo trenta monete d’argento, ma forse bastavano per riscattare Emma da suo padre e sposarla.
E poi, chissà? Un lavoro da qualche parte lo avrebbe trovato.
Mentre questo pensiero gli attraversava la mente, sentì i piedi farsi più leggeri e accelerò il passo.
Era come se, dopo quelli che sembravano mille anni, qualcuno avesse sollevato l’enorme peso che gli gravava sulle spalle e sul petto.
Poi… mentre accelerava il passo, una lacrima cadde dall'alto, proprio davanti a lui. E poi un’altra ancora…
Si guardò intorno stupito, poi alzò lo sguardo verso il cielo…

Stava piovendo.