domenica 31 agosto 2014

INCIPIT

Breve spiegazione.
Come ho già scritto qua e là su facebook, in questo periodo ci sono cinque diverse storie (vale a dire cinque potenziali romanzi) che mi frullano per la testa.
Il problema è che non riesco a decidere su quale dei cinque concentrare le mie energie. Avrei quindi pensato di chiedere la vostra gentile collaborazione, postando qui i cinque INCIPIT più o meno estesi e chiedendovi di esprimere una preferenza.

Grazie ancora...
Dario

INCIPIT n°1
L'Artiglio Dimenticato
(genere epic/low fantasy)


Prologo: anno 1000 della terza era

L'arena era gremita di gente.
Gli uomini del Lagin e dell'Elagon erano accorsi per assistere al duello e ora occupavano disordinatamente gli spalti e l'area erbosa tutt'intorno all'arena, aspettando con impazienza l'ingresso dei due campioni.
Sul lato settentrionale erano stati elevati i Palchi Reali per il Re dell'Elagon e la sua corte. Mahan dalle Cento Braccia, il Gran Maestro dell'Ordine di Lynn Cerrig sedeva alla destra del monarca, mentre il suo Gran Consigliere, Drystan del Drago Rampante occupava il palco inferiore con una rappresentanza dei Leoni Rossi.
Esattamente di fronte a loro, sul lato opposto dell'arena, una struttura analoga ospitava il Re del Lagin, il suo seguito e i rappresentanti del Sentiero d'Acciaio.
Il sole era sorto da tre ore e da tre ore lottava per aprirsi un varco tra la pesante coltre di nubi che annunciava l'approssimarsi del temporale. Ma neanche la più spaventosa delle tempeste avrebbe potuto fermare il “Giudizio delle Spade”.
Finalmente, dopo quasi 20 anni di attesa, lo scontro tra due campioni avrebbe stabilito una volta e per sempre le sorti del Principato d'Aquitaiòn.
Dal suo comodo scranno Drystan lasciò che lo sguardo vagasse senza una meta precisa, com'era sua abitudine fare prima di un duello, per allentare la tensione, anche se, questa volta, non sarebbe toccato a lui scendere in campo. Sorrise mestamente di sé stesso, pensando che certe abitudini sono dure da perdere, poi sospirò profondamente e cercò di assaporare l'atmosfera circostante, senza pensare a nient'altro.
Anche se era praticamente certo dell'esito, una parte di lui avvertiva la stessa strisciante tensione e la pulsante eccitazione delle centinaia di persone che erano accorse da tutta la regione per assistere al giudizio.
Vent'anni di guerre. Vent'anni di complicati giochi politici, trattative segrete, alleanze, tradimenti e ancora guerre, sanguinose, spietate... come solo le guerre possono essere. Adesso, finalmente, in base ad un accordo stipulato sull'onda della paura che, una terza guerra, più terribile di quelle che l’avevano preceduta potesse consegnare entrambe le nazioni ai barbari orientali, un unico duello avrebbe posto fine ad ogni controversia, per sempre.
Il principato sarà nostro, pensò Drystan, e tutto quello che abbiamo sacrificato a questo insensato conflitto avrà un senso...
L'annessione non gli avrebbe certo restituito l'uso del braccio, o tutti i fratelli morti in battaglia. Non avrebbe cancellato il tradimento di Owein, né la battaglia del passo di Brug. Di questo Drystan era ben consapevole. Ma, almeno, avrebbe reso tutto più... accettabile.
O per lo meno, questo era quello che sperava.
Finalmente, il Gran Cerimoniere, diede l'ordine di suonare le cornamuse. Il cancello settentrionale venne aperto, e il Campione di Lynn Cerrig entrò nell'arena.
Gwern dalle ali d'argento varcò la soglia a piedi, con passo deciso, a capo scoperto, come voleva la tradizione, accompagnato da uno scudiero e dal suo serjeant. Si fermò al centro dell'arena, e porse lo scudo ai due uomini che lo assistevano che lo sollevarono in alto, perché tutti potessero vederne lo stemma: un’aquila argentata in campo celeste.
Poi il cavaliere si spogliò del mantello rosso, che fu preso in consegna dal suo serjeant e restò solo ad attendere il suo avversario, con la sottile cotta di maglia argentata che scintillava al sole, stretta in vita da una fascia di seta scarlatta.
Ad un altro cenno del Gran Cerimoniere le cornamuse squillarono nuovamente, e fu aperto il cancello meridionale.
Entrò l'uomo del Lagin, da solo, accompagnato da un sommesso mormorio di sorpresa. Non indossava il mantello bianco simbolo e vanto dei seguaci del Sentiero d'Acciaio, ma era abbigliato di nero, con una tunica dall’ampio cappuccio che gli copriva il volto. E quando sollevò lo scudo, tutti poterono vedere il suo blasone, che era composto dal profilo di due corvi che si fronteggiavano.
Drystan, dal suo palco, ebbe un sussulto, e mentre la sua mano sinistra si serrava convulsamente intorno al polso destro, mormorò una sola parola, a bassa voce: Owein!


INCIPIT n°2
Mitologia di Harlan
Storie di minatori del Kentucky
uomini, donne e varia umanità
(genere indefinibile: drammatico, umoristico, surreale)

Where the sun comes up about ten in the morning
And the sun goes down about three in the day
And you fill your cup with whatever bitter brew you're drinking
And you spend your life digging coal from the bottom of your grave
In the deep dark hills of eastern Kentucky
That's the place where I trace my bloodline
And it's there I read on a hillside gravestone
You will never leave Harlan alive
(song by scott, darrell)

La prima cosa che ricordo, di quando arrivai ad Harlan, sono le montagne decapitate.
Me ne avevano parlato certo, e avevo visto qualche foto ingiallita, ma lì dal vivo, era tutta un’altra cosa… ed erano uno spettacolo così assurdo, così impensabile, che restai imbambolato a fissarle senza riuscire a capire.
Un vecchio dalla faccia scavata come un canyon, nel vedere quella mia espressione confusa, sorrise e mi disse: “So cosa stai pensando ragazzo, è come se l’immensa mano di Dio, reggendo un coltello, le avesse scalpate per prendersi un trofeo da portare lassù in cielo o giù all’inferno, a seconda di dove viva quel dannato. Solo che non è stato dio a decapitare quei monti…” aggiunse con ghigno sdentato, “ma le compagnie minerarie e il loro trofeo non sono le cime delle colline, ma il carbone. Mentre il prezzo…” fece una lunga pausa, “beh quello siamo noi…” .
Fu così che imparai che se nasci ad Harlan hai una sola possibilità per sopravvivere: fare il minatore. In ogni famiglia di Harlan ce n’è o ce n’è stato uno. Ogni famiglia ha pagato col sangue quel carbone.
La seconda cosa che mi colpì, quando arrivai ad Harlan… fu lo sguardo delle persone: quelli che vivono ad Harlan hanno lo sguardo spento di chi non crede più nel futuro, eppure, in quello sguardo senza speranza, c’è la luce determinata di chi ha deciso che scaverà con le unghie e con i denti in quelle fottute miniere, e sputerà sangue e tossirà carbone, ma resterà aggrappato a quella vita, per quanto possa essere una vita di merda, fino a che sarà in grado di respirare.
È gente dura quella. Gente che ha imparato cosa vuol dire strisciare nelle viscere della terra e risalire con la pelle impastata di sudore e polvere di carbone… col respiro che è quasi un rantolo e gli occhi che bruciano. Con le braccia e le gambe così stanche che hai appena la forza di darti una sciacquata e cadere sul letto per poi ricominciare tutto daccapo, il giorno dopo.
Ma cazzo, quella è la loro vita e loro ci restano aggrappati, giorno dopo giorno, fino a che da quel letto non si alzano più.
La terza cosa che non dimenticherò mai più, di quando arrivai ad Harlan… è il cimitero dei minatori. E come se quella stessa mano gigantesca di Dio, dopo aver decapitato le montagne, avesse deciso di restituire in qualche modo al mondo, ciò di cui l’aveva privato. E quegli alberi che adesso non crescono più sulle colline… sono diventati una distesa di croci e di lapidi, alla periferia di Harlan.
Ce ne dovrebbero essere molte di più” mi disse un uomo, notando la mia espressione, “ma una delle concessioni che ci fa, questa vita, è che in molti abbiamo il privilegio di scavarci la fossa con le nostre mani. In fondo è proprio quello che facciamo mentre estraiamo il carbone… ci seppelliamo, giorno dopo giorno, un po’ più a fondo”.
Poi cominciò a ridere. Una risata profonda, rauca… che sembrava rimbombare come i rintocchi di una campana che suona a lutto. Una risata che ancora sento nelle mie orecchie.
All'inizio la mia intenzione era stata quella di attraversare Harlan, gettare un rapido sguardo al Saloon di Leroy Brown, di cui mi aveva parlato un tipo giù al sud, e riprendere il mio viaggio verso Cincinnati.
La mia macchina, invece, la pensava diversamente e aveva esalato il suo ultimo respiro proprio dalle parti del cimitero. Non si poteva dire che mancasse di coerenza.
Era esploso un cilindro, o qualcosa del genere. Non avevo capito molto dai farfugliamenti confusi di Big John, l'unico meccanico aperto di sabato sera. Fatto sta che il pezzo di ricambio mancava e doveva farselo spedire da Louisville, ma il corriere, strada facendo, andò a sbattere contro il grosso sedere di una mucca, stranamente ferma in mezzo alla statale, e quindi le cose si protrassero più di quanto fosse previsto.
Dovevo restare ad Harlan non più di mezza giornata... ci restai sei mesi. Passati quasi tutti nel Saloon di Leroy Brown, a parlare con persone di tutti i tipi... ad ascoltare le loro incredibili storie.
Sei mesi più tardi, io che potevo, lasciai Harlan.
 Ma qualcosa di me è rimasta lì, insieme a quegli uomini. E qualcosa di loro è venuta con me…  

INCIPIT n°3
Il Re Senza Nome
(genere dark/urban fantasy)

Come ogni notte Andrea stava camminando sopra le nebbie del nulla.
Succedeva sempre così, appena chiudeva gli occhi il sonno calava rapido come un uccello predatore, e con esso le allucinazioni.
Andrea non sapeva da dove venissero le cose che il sonno portava con sé. Sapeva solo che erano inevitabili e come tali aveva imparato ad accettarle, anche se non gli piacevano neanche un po'.
La nebbia era appiccicosa e prepotente. Gli veniva addosso, gli si avvolgeva intorno ai piedi e lo seguiva... come un cucciolo invadente e noioso. Sempre dietro, sempre lì... a sussurrare parole senza senso. Ossessiva.
E non c'era niente da fare, non c'era modo di liberarsene se non prendendola e dandole una forma... una qualsiasi forma che non fosse più quel viluppo indistinto di nulla.
Così, col tempo, Andrea era diventato molto bravo a impastare la nebbia. Quello che, all'inizio, era nato come necessità. Come l'unico modo per disfarsi di quella presenza fastidiosa, si era trasformato quasi in un gioco. Era un po' come avere una collezione personale di costruzioni dalle potenzialità illimitate. Bastava muovere le mani... gesticolare nella nebbia, che si avviluppava intorno alle dita e poi scorreva via in vortici solo apparentemente caotici che, dopo un po', esaurivano il loro movimento cristallizzandosi in qualcosa. Qualcosa che prima non c’era. Solo che non sempre quel qualcosa era qualcosa di bello.
Per esempio quella notte, le cose non stavano andando per niente bene.
Andrea aveva appena plasmato una brughiera scura... butterata di alberi dalla sagoma scheletrica che protendevano verso l'alto i loro profili contorti. E più in là, un bosco che brulicava di creature davvero poco amichevoli.
Le creature avevano occhi scavati e lattiginosi, senza pupille. Probabilmente non vedevano nulla né al buio né alla luce... ma avevano un buon olfatto e Andrea profumava di pulito.
«Nebbia di merda!» sbottò Andrea vedendo che il branco si avventava verso di lui.
Poi cominciò a correre.
Andrea era molto bravo a correre. Gliel'avevano detto anche a scuola: «sei molto veloce, perché non entri nella squadra di atletica?»
Ma a lui non interessava far parte di una squadra. Quindi non aveva accettato, suscitando la delusione dell’insegnate di Educazione Fisica, che si era sentita quasi tradita dal suo rifiuto.
Il fatto è che a lui piaceva correre perché quando correva si sentiva vivo... e libero. Gli piaceva quella sensazione, di poter arrivare dappertutto... come se la vita fosse il tracciato da percorrere. Un tracciato lineare, senza sbagli, senza decisioni difficili da prendere. Vai avanti, e arriverai al tuo traguardo.
La vita non era così, ovviamente. Ma quando correva poteva illudersi, per qualche attimo, che lo fosse. E questo lo faceva stare bene.
Non era interessato alle gare o alle medaglie. Quindi aveva continuato a correre da solo e, quasi senza accorgersene, era diventato molto veloce... ma non abbastanza.
Le cose dietro di lui erano molto più veloci e cattive.
Le cose lo volevano.
Andrea non sapeva bene se quelle cose dovevano a lui la propria esistenza, o se aveva semplicemente aperto una porta che le aveva portate fino a lì, attraverso la nebbia, e tutto sommato non gli importava neanche tanto. Come non importava a loro, del resto.
Sapeva però che era meglio non farsi raggiungere.
Ce la posso fare, pensò confusamente mentre correva a più non posso, sono io che ho dato forma a questo posto, e quindi posso trovare l'uscita, prima che mi raggiungano!
Le cose, dietro di lui, emisero dei suoni gorgoglianti. Un misto tra il latrato di un cane e il ruggito di una tigre. Non erano parole, ma per Andrea avevano un significato, e il significato era: faremo a pezzi il tuo corpo e la tua anima, prima che tu abbia il tempo di urlare... faremo a pezzi il tuo corpo e la tua anima e li divoreremo, e tu non sarai mai esistito...
Merda. Pensò Andrea, forse non ce la faccio.
Poi vide una specie di stagno, qualche centinaio di metri più avanti.
Uno stagno dall'aria scura e profonda. Quel genere di stagni da cui, normalmente, sarebbe bene tenersi alla larga. Quelli che ingoiano le persone e restituiscono i loro cadaveri a distanza di mesi.
Normalmente chiunque si terrebbe lontano da un posto del genere.
Ma quello che stava succedendo poteva definirsi in mille modi, tranne che “normale”. Quindi Andrea puntò con decisione verso lo stagno e, un attimo prima che una delle cose che lo inseguivano avesse modo di artigliarlo, vi ci si tuffò dentro.
Per un attimo l'acqua gelida dello stagno ribollì furiosamente, mentre Andrea andava giù.
L'acqua gli entrò nella bocca e anche nel naso, e da lì invase i polmoni colpendo, dall'interno, come una martellata... poi Andrea emise un gemito soffocato...
...e si svegliò.

INCIPIT n°4
Il Pianto di Giuda
(genere drammatico)

Prima
«Che stai facendo?»
«Non lo vedi? Un cazzo… non sto facendo un cazzo.»
«E che ci devi fare con quella?»
«Con cosa?»
«La pistola.»
«Ah quella!»
Sorride rigirandosela tra le mani
«E' una mia cara amica... se vuoi te la presento...»
«Dalla a me, che è meglio…»
Lui guarda di nuovo la pistola. Sembra rifletterci un attimo, poi stringe nuovamente la mano sull’impugnatura.
«Naaaa... mi sa che la tengo ancora un po' qui con me.»
«Dammela» ripeto «prima che qualcuno si faccia male.»
«E perché? Tanto lo sapevamo tutti e due fin dall’inizio che doveva andare a finire così…»
«E chi lo dice? Andiamo, dipende solo da noi…»
«Noi?»
«Da te... dipende solo da te, cazzo... Simon!»
«Appunto.»

Adesso
Stavo sognando.
Non ricordo esattamente cosa, ma si trattava di un bel sogno, almeno a giudicare dalla sensazione che mi è rimasta appiccicata addosso.
Non mi capita spesso di fare sogni piacevoli.
In genere sogno Simon. A volte ha lo stesso sorriso di superiorità del cazzo che gli ho visto l’ultima volta che ci siamo incontrati, altre volte gli manca metà della testa, ma sorride lo stesso con quell’aria un po’ provocatoria di chi ha sempre il controllo della situazione, ha previsto ogni cosa e sa che tutto andrà esattamente come aveva stabilito.
Stronzo che non era altro.
Questa notte no però. Mi ha lasciato in pace, e stavo facendo un bel sogno… fino a quando la luce non è venuta a svegliarmi, con quel suo tocco prepotente e imperioso, disperdendo le ombre che così gentilmente erano venute a tenermi compagnia in quel pozzo scuro che sono io.
Ho cercato di resisterle, per qualche minuto, tenendo ostinatamente gli occhi chiusi, ma sapevo benissimo che era inutile. Come sempre, alla fine, avrebbe vinto lei.
Così mi sono alzato, imprecando a mezza voce ed ho permesso al mio sguardo di vagare intorno, infastidito…
Odio la luce del giorno.
E’ così… indiscreta.
Non le si può nascondere nulla, arriva dappertutto, e io, invece, ho troppe cose da nascondere. Lo sguardo ogni giorno un po’ più stanco. I muscoli ogni giorno un po’ più flaccidi, segnati dal tempo e dalla mia incuria. I capelli che stanno cominciando ad ingrigirsi… la bottiglia di birra sotto il letto. Troppe cose da nascondere…
Ma a lei cosa importa?
Lei deve fare il suo maledetto dovere, tutti i santissimi giorni che Dio mette in terra. E’ precisa, lei… puntuale. Arriva con l’alba, e se ne va al tramonto.
Mai una volta che mi sorprenda facendo qualcosa di diverso.
Pensa solo a fare il suo lavoro, lei, sempre. E mi ricorda, ogni volta, che io dovrei fare il mio.
Vada a farsi fottere!

INCIPIT n°5
Mago
Una Sorella è pur sempre una Sorella
(genere fantasy umoristico)


Una delle cose che ricordo più chiaramente del periodo passato all'Accademia delle Arti Magiche Riunite, fu il corso di specializzazione in alchimia tenuto da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero.
Ricordo che arrivò in classe con quella sua aria un po' truce, quell'aria di superiorità della nobiltà napoletana del 1700. Ci guardò uno per uno per uno e poi disse: «Adesso che avete imparato quelle tre o quattro formulette magiche del corso di base è molto probabile che vi sentiate speciali, potenti, invincibili... beh ho una notizia da darvi: non lo siete. Voi siete...» ci guardò di nuovo, sfoggiando un sorriso che ci fece rimpiangere l'aria truce, «...poco più che dei patetici giocolieri che fanno complicatissimi esercizi con sfere di cristallo piene di altofuoco. E non importa quanto crediate di essere bravi, prima o poi ne farete cadere una... è inevitabile. Succede tutti... anche a me. E' così che son morto. Quindi, la prima lezione che voglio darvi è più che altro un consiglio che farete bene a tenere sempre a mente: volate basso, ragazzi. Volate sempre molto basso! In questo modo, quando cadrete, vi farete un po' meno male... forse...»
In generale il corso di alchimia si rivelò di una noia mortale, ma quel primo avvertimento no. Quello è stato la base su cui ho edificato tutta la mia carriera di mago.
Volare basso... sempre.
Ora, riconsiderando tutto quello che è successo nelle ultime settimane, e il fatto che mi sto avviando verso il secondo girone infernale, per discutere con Minosse le condizioni del rilascio di mia sorella, direi che più basso di così non si poteva proprio volare... ma probabilmente non è a questo che si riferiva il principe di Sansevero.
Comunque, ormai è tardi per tornare indietro.
Sopra di me, quelli delle Logge Luminose mi danno la caccia per aver infranto il patto di neutralità.
Sotto di me, nei Decumani Demoniaci, hanno sequestrato mia sorella e intendono condannarla per l'eternità...
Considerando che l'unico responsabile di tutto questo casino sono io, spetta a me porvi rimedio, in un modo o nell'altro.
«Ancora non ci credo che siamo finiti all'inferno...» si lamentò il mio amico Daniele scuotendo il capo.
«Già» risposi.
«E adesso... che si fa?»
Restai un attimo in silenzio, poi parlai cercando di assumere un tono convincente: «Adesso andiamo da quel gran cornuto di Minosse e gli facciamo un culo a tarallo!»

martedì 26 agosto 2014

Una parola al giorno (o quasi) - SOLDATINI

San Carlos de Bariloche, Argentina, anno 1962

«Mamma...»
Il bambino è sulla soglia, con le mani che si aprono e si chiudono nervosamente.
«Dimmi Manuel».
«Hai presente quel signore un po' strano?»
«Chi?»
«Quello coi baffetti, che gioca sempre coi soldatini... hai presente?»
Adesso Manuel ha tutta l'attenzione della madre che solleva il capo e lo guarda preoccupata.
«Che cosa hai fatto Manuel?»
«Ma niente, è che...»
«M a n u e l ...»
Il ragazzino lo sa: quando la mamma pronuncia il suo nome il quel modo non c'è scampo.
Comincia a piagnucolare.
«Io non ho fatto niente, te lo giuro!»
Ginevra è divorata dall'angoscia. Gli ha detto mille volte di stare lontano da quell'uomo e da quella gente che gli sta intorno. È brutta gente, non ci vuole un genio per capirlo. E' gente pericolosa, gente che, quando cammina sotto al sole, getta intorno a sé un'ombra di sangue. È come se la morte li seguisse come un docile cagnolino. “La morte gli fa le feste” così dicono i paesani, quando sono abbastanza ubriachi da non sentire più la paura, “soprattutto al gringo coi baffetti!”.
Ginevra abbraccia il figlio. Lo stringe a sé sperando che non sia successo niente di grave.
È solo un bambino, pensa, è solo il mio bambino. Cosa può aver fatto di male?
«Cos'hai combinato Manuel? Dimmelo...»
«È che lui coi soldatini non ci sa giocare, mamma...»
«I soldatini?» Ginevra non capisce.
«Sì!»
«E allora?»
«E allora gli ho detto che secondo me avrebbe perso la battaglia» confessa Manuel, tutto d'un fiato.
«Cos'hai fatto?!»
«Allora lui ha cominciato a urlare in una lingua strana, con gli occhi iniettati di sangue… “Nein! Nein!!!” urlava e poi mi ha preso per le spalle e mi scuoteva…»
Manuel ha le lacrime agli occhi e trema al ricordo di quello che è successo. E adesso trema anche sua madre.
«E poi? Cos’è successo poi?» gli chiede.
Manuel si asciuga il naso col dorso della mano.
«Poi sono scappato…»
Ginevra sospira. Grazie a Dio!
«Non farlo mai più! Quell'uomo è pericoloso!»
«Non più credo…»
«Che vuoi dire?»
«Mentre scappavo, si è fatto tutto viola e poi…»
«E poi?»
«Credo sia morto».
Ginevra si blocca.
«Ti ha visto qualcuno?»
Manuel scuote il capo.
È tutto a posto. È tutto a posto. Non lo saprà mai nessuno!
Ginevra riprende a respirare. È come se, dopo mesi di cielo plumbeo coperto da spesse nubi opprimenti, fosse spuntato improvvisamente il sole.
«Tu però non devi disobbedirmi mai più, capito?»
«Sì è solo che…»
«Che?»
«Coi soldatini non ci sapeva proprio giocare…»

Secondo alcune testimonianze non confermate, Adolf Hitler non sarebbe morto all'interno del proprio bunker il 30 aprile del 1945, bensì nel 1962 in un paesino dell'Argentina, dove si era rifugiato. Le cause della sua morte sono tuttora avvolte nel mistero...

domenica 10 agosto 2014

L'Oceano in fondo al Sentiero

Oggi ho finito di leggere questo romanzo di Neil Gaiman.
Volevo dirvi che è molto bello.
Tutto qui.
E' uno di quei romanzi che leggi tutto d'un fiato e che, quando finiscono, ti lasciano un senso di pienezza e di vuoto al tempo stesso... e quella sottile nostalgia che un po' fa male e un po' fa sognare.
E' uno di quei romanzi che, chiuso il reader, ti fanno pensare: "questo lo avrei voluto scrivere io..."
Solo che l'ha scritto lui, Gaiman. E forse è meglio così, perché verrà letto decisamente da un numero maggiore di persone.
Vi consiglio di fare il possibile per rientrare in quel numero.

Dario