Come ho già scritto qua e là su facebook, in questo periodo ci sono cinque diverse storie (vale a dire cinque potenziali romanzi) che mi frullano per la testa.
Il problema è che non riesco a decidere su quale dei cinque concentrare le mie energie. Avrei quindi pensato di chiedere la vostra gentile collaborazione, postando qui i cinque INCIPIT più o meno estesi e chiedendovi di esprimere una preferenza.
Grazie ancora...
Dario
INCIPIT n°1
L'Artiglio Dimenticato
(genere epic/low fantasy)
Prologo: anno 1000 della terza era
L'arena era gremita di
gente.
Gli uomini del Lagin e
dell'Elagon erano accorsi per assistere al duello e ora occupavano
disordinatamente gli spalti e l'area erbosa tutt'intorno all'arena,
aspettando con impazienza l'ingresso dei due campioni.
Sul lato settentrionale
erano stati elevati i Palchi Reali per il Re dell'Elagon e la sua
corte. Mahan dalle Cento Braccia, il Gran Maestro dell'Ordine di Lynn
Cerrig sedeva alla destra del monarca, mentre il suo Gran
Consigliere, Drystan del Drago Rampante occupava il palco inferiore
con una rappresentanza dei Leoni Rossi.
Esattamente di fronte a
loro, sul lato opposto dell'arena, una struttura analoga ospitava il
Re del Lagin, il suo seguito e i rappresentanti del Sentiero
d'Acciaio.
Il sole era sorto da tre
ore e da tre ore lottava per aprirsi un varco tra la pesante coltre
di nubi che annunciava l'approssimarsi del temporale. Ma neanche la
più spaventosa delle tempeste avrebbe potuto fermare il “Giudizio
delle Spade”.
Finalmente, dopo quasi 20
anni di attesa, lo scontro tra due campioni avrebbe stabilito una
volta e per sempre le sorti del Principato d'Aquitaiòn.
Dal suo comodo scranno
Drystan lasciò che lo sguardo vagasse senza una meta precisa,
com'era sua abitudine fare prima di un duello, per allentare la
tensione, anche se, questa volta, non sarebbe toccato a lui scendere
in campo. Sorrise mestamente di sé stesso, pensando che certe
abitudini sono dure da perdere, poi sospirò profondamente e cercò
di assaporare l'atmosfera circostante, senza pensare a nient'altro.
Anche se era praticamente
certo dell'esito, una parte di lui avvertiva la stessa strisciante
tensione e la pulsante eccitazione delle centinaia di persone che
erano accorse da tutta la regione per assistere al giudizio.
Vent'anni di guerre.
Vent'anni di complicati giochi politici, trattative segrete,
alleanze, tradimenti e ancora guerre, sanguinose, spietate... come
solo le guerre possono essere. Adesso, finalmente, in base ad un
accordo stipulato sull'onda della paura che, una terza guerra, più
terribile di quelle che l’avevano preceduta potesse consegnare
entrambe le nazioni ai barbari orientali, un unico duello avrebbe
posto fine ad ogni controversia, per sempre.
Il principato sarà
nostro, pensò Drystan, e tutto quello che abbiamo
sacrificato a questo insensato conflitto avrà un senso...
L'annessione non gli
avrebbe certo restituito l'uso del braccio, o tutti i fratelli morti
in battaglia. Non avrebbe cancellato il tradimento di Owein, né la
battaglia del passo di Brug. Di questo Drystan era ben consapevole.
Ma, almeno, avrebbe reso tutto più...
accettabile.
O per lo meno, questo era
quello che sperava.
Finalmente, il Gran
Cerimoniere, diede l'ordine di suonare le cornamuse. Il cancello
settentrionale venne aperto, e il Campione di Lynn Cerrig entrò
nell'arena.
Gwern dalle ali d'argento
varcò la soglia a piedi, con passo deciso, a capo scoperto, come
voleva la tradizione, accompagnato da uno scudiero e dal suo
serjeant. Si fermò al centro dell'arena, e porse lo scudo ai due
uomini che lo assistevano che lo sollevarono in alto, perché tutti
potessero vederne lo stemma: un’aquila argentata in campo celeste.
Poi il cavaliere si
spogliò del mantello rosso, che fu preso in consegna dal suo
serjeant e restò solo ad attendere il
suo avversario, con la sottile cotta di maglia argentata che
scintillava al sole, stretta in vita da una fascia di seta scarlatta.
Ad un altro cenno del
Gran Cerimoniere le cornamuse squillarono nuovamente, e fu aperto il
cancello meridionale.
Entrò l'uomo del Lagin,
da solo, accompagnato da un sommesso mormorio di sorpresa. Non
indossava il mantello bianco simbolo e vanto dei seguaci del Sentiero
d'Acciaio, ma era abbigliato di nero, con una tunica dall’ampio
cappuccio che gli copriva il volto. E quando sollevò lo scudo, tutti
poterono vedere il suo blasone, che era composto dal profilo di due
corvi che si fronteggiavano.
Drystan, dal suo palco,
ebbe un sussulto, e mentre la sua mano sinistra si serrava
convulsamente intorno al polso destro, mormorò una sola parola, a
bassa voce: Owein!Mitologia di Harlan
Storie di minatori del Kentucky
uomini, donne e varia umanità
(genere indefinibile: drammatico, umoristico, surreale)
Where the sun comes up about ten in the morning
And the sun goes down about three in the day
And you fill your cup with whatever bitter brew you're drinking
And you spend your life digging coal from the bottom of your grave
In the deep dark hills of eastern Kentucky
That's the place where I trace my bloodline
And it's there I read on a hillside gravestone
You will never leave Harlan alive
And the sun goes down about three in the day
And you fill your cup with whatever bitter brew you're drinking
And you spend your life digging coal from the bottom of your grave
In the deep dark hills of eastern Kentucky
That's the place where I trace my bloodline
And it's there I read on a hillside gravestone
You will never leave Harlan alive
(song by scott, darrell)
La prima cosa che ricordo, di quando arrivai ad
Harlan, sono
le montagne decapitate.
Me ne avevano parlato certo, e avevo visto
qualche foto ingiallita, ma lì dal vivo, era tutta un’altra cosa…
ed erano uno spettacolo così assurdo, così impensabile, che restai
imbambolato a fissarle senza riuscire a capire.
Un vecchio dalla faccia scavata come un canyon,
nel vedere quella mia espressione confusa, sorrise e mi disse: “So
cosa stai pensando ragazzo, è come se l’immensa mano di Dio,
reggendo un coltello, le avesse scalpate per prendersi un trofeo da
portare lassù in cielo o giù all’inferno, a seconda di dove viva
quel dannato. Solo che non è stato dio a decapitare quei monti…”
aggiunse con ghigno sdentato, “ma
le compagnie minerarie e il loro trofeo non sono le cime delle
colline, ma il carbone. Mentre il prezzo…” fece una lunga pausa,
“beh quello siamo noi…” .
Fu così che imparai che se nasci ad Harlan hai
una sola possibilità per sopravvivere: fare il minatore. In ogni
famiglia di Harlan ce n’è o ce n’è stato uno. Ogni famiglia ha
pagato col sangue quel carbone.
La seconda cosa che mi colpì, quando arrivai
ad Harlan… fu lo sguardo delle
persone: quelli che vivono ad Harlan hanno lo sguardo spento di chi
non crede più nel futuro, eppure, in quello sguardo senza speranza,
c’è la luce determinata di chi ha deciso che scaverà con le
unghie e con i denti in quelle fottute miniere, e sputerà sangue e
tossirà carbone, ma resterà aggrappato a quella vita, per quanto
possa essere una vita di merda, fino a che sarà in grado di
respirare.
È gente dura quella. Gente che ha imparato
cosa vuol dire strisciare nelle viscere della terra e risalire con la
pelle impastata di sudore e polvere di carbone… col respiro che è
quasi un rantolo e gli occhi che bruciano. Con le braccia e le gambe
così stanche che hai appena la forza di darti una sciacquata e
cadere sul letto per poi ricominciare tutto daccapo, il giorno dopo.
Ma cazzo, quella è la loro vita e loro ci
restano aggrappati, giorno dopo giorno,
fino a che da quel letto non si alzano più.
La terza cosa che non dimenticherò mai più,
di quando arrivai ad Harlan… è il cimitero dei minatori. E come se
quella stessa mano gigantesca di Dio, dopo aver decapitato le
montagne, avesse deciso di restituire in qualche modo al mondo, ciò
di cui l’aveva privato. E quegli alberi che adesso non crescono più
sulle colline… sono diventati una distesa di croci e di lapidi,
alla periferia di Harlan.
“Ce ne
dovrebbero essere molte di più” mi disse un uomo,
notando la mia espressione, “ma
una delle concessioni che ci fa, questa vita, è che in molti abbiamo
il privilegio di scavarci la fossa con le nostre mani. In fondo è
proprio quello che facciamo mentre estraiamo il carbone… ci
seppelliamo, giorno dopo giorno, un po’ più a fondo”.
Poi cominciò a ridere. Una risata profonda,
rauca… che sembrava rimbombare come i rintocchi di una campana che
suona a lutto. Una risata che ancora sento nelle mie orecchie.
All'inizio la mia intenzione era stata quella
di attraversare Harlan, gettare un rapido sguardo al Saloon di Leroy
Brown, di cui mi aveva parlato un tipo giù al sud, e riprendere il
mio viaggio verso Cincinnati.
La mia macchina, invece, la pensava
diversamente e aveva esalato il suo ultimo respiro proprio dalle
parti del cimitero. Non si poteva dire che mancasse di coerenza.
Era esploso un cilindro, o qualcosa del genere.
Non avevo capito molto dai farfugliamenti confusi di Big John,
l'unico meccanico aperto di sabato sera. Fatto sta che
il pezzo di ricambio mancava e doveva
farselo spedire da Louisville, ma il
corriere, strada facendo, andò a sbattere contro il grosso sedere di
una mucca, stranamente ferma in mezzo alla statale, e quindi
le cose si protrassero più di quanto fosse previsto.
Dovevo restare ad Harlan non più di mezza
giornata... ci restai sei mesi. Passati quasi tutti nel Saloon di
Leroy Brown, a parlare con persone di tutti i tipi... ad ascoltare le
loro incredibili storie.
Sei mesi più tardi, io che potevo, lasciai
Harlan.
Ma qualcosa di me è rimasta lì, insieme a quegli uomini. E qualcosa
di loro è venuta con me…
Il Re Senza Nome
(genere dark/urban fantasy)
Come ogni notte Andrea
stava camminando sopra le nebbie del nulla.
Succedeva sempre così,
appena chiudeva gli occhi il sonno calava rapido come un uccello
predatore, e con esso le allucinazioni.
Andrea non sapeva da dove
venissero le cose che il sonno portava con sé. Sapeva solo che erano
inevitabili e come tali aveva imparato ad accettarle, anche se non
gli piacevano neanche un po'.
La nebbia era appiccicosa
e prepotente. Gli veniva addosso, gli si avvolgeva intorno ai piedi e
lo seguiva... come un cucciolo invadente e noioso. Sempre dietro,
sempre lì... a sussurrare parole senza senso. Ossessiva.
E non c'era niente da
fare, non c'era modo di liberarsene se non prendendola e dandole una
forma... una qualsiasi forma che non fosse più quel viluppo
indistinto di nulla.
Così, col tempo, Andrea
era diventato molto bravo a impastare la nebbia. Quello che,
all'inizio, era nato come necessità. Come l'unico modo per disfarsi
di quella presenza fastidiosa, si era trasformato quasi in un gioco.
Era un po' come avere una collezione personale di costruzioni dalle
potenzialità illimitate. Bastava muovere le mani... gesticolare
nella nebbia, che si avviluppava intorno alle dita e poi scorreva via
in vortici solo apparentemente caotici che, dopo un po', esaurivano
il loro movimento cristallizzandosi in qualcosa. Qualcosa che prima
non c’era. Solo che non sempre quel qualcosa era qualcosa di bello.
Per esempio quella notte,
le cose non stavano andando per niente bene.
Andrea aveva appena
plasmato una brughiera scura... butterata di alberi dalla sagoma
scheletrica che protendevano verso l'alto i loro profili contorti. E
più in là, un bosco che brulicava di creature davvero poco
amichevoli.
Le creature avevano occhi
scavati e lattiginosi, senza pupille. Probabilmente non vedevano
nulla né al buio né alla luce... ma avevano un buon olfatto e
Andrea profumava di pulito.
«Nebbia di merda!»
sbottò Andrea vedendo che il branco si avventava verso di lui.
Poi cominciò a correre.
Andrea era molto bravo a
correre. Gliel'avevano detto anche a scuola: «sei molto veloce,
perché non entri nella squadra di atletica?»
Ma a lui non interessava
far parte di una squadra. Quindi non aveva accettato, suscitando la
delusione dell’insegnate di Educazione Fisica, che si era sentita
quasi tradita dal suo rifiuto.
Il fatto è che a lui
piaceva correre perché quando correva si sentiva vivo... e libero.
Gli piaceva quella sensazione, di poter arrivare dappertutto... come
se la vita fosse il tracciato da percorrere. Un tracciato lineare,
senza sbagli, senza decisioni difficili da prendere. Vai avanti, e
arriverai al tuo traguardo.
La vita non era così,
ovviamente. Ma quando correva poteva illudersi, per qualche attimo,
che lo fosse. E questo lo faceva stare bene.
Non era interessato alle
gare o alle medaglie. Quindi aveva continuato a correre da solo e,
quasi senza accorgersene, era diventato molto veloce... ma non
abbastanza.
Le cose dietro di
lui erano molto più veloci e cattive.
Le cose lo
volevano.
Andrea non sapeva bene se
quelle cose dovevano a lui la propria esistenza, o se aveva
semplicemente aperto una porta che le aveva portate fino a lì,
attraverso la nebbia, e tutto sommato non gli importava neanche
tanto. Come non importava a loro, del resto.
Sapeva però che era
meglio non farsi raggiungere.
Ce la posso fare,
pensò confusamente mentre correva a più non posso, sono io che
ho dato forma a questo posto, e quindi posso trovare l'uscita, prima
che mi raggiungano!
Le cose, dietro di
lui, emisero dei suoni gorgoglianti. Un misto tra il latrato di un
cane e il ruggito di una tigre. Non erano parole, ma per Andrea
avevano un significato, e il significato era: faremo a pezzi il
tuo corpo e la tua anima, prima che tu abbia il tempo di urlare...
faremo a pezzi il tuo corpo e la tua anima e li divoreremo, e tu non
sarai mai esistito...
Merda. Pensò
Andrea, forse non ce la faccio.
Poi vide una specie di
stagno, qualche centinaio di metri più avanti.
Uno stagno dall'aria
scura e profonda. Quel genere di stagni da cui, normalmente, sarebbe
bene tenersi alla larga. Quelli che ingoiano le persone e
restituiscono i loro cadaveri a distanza di mesi.
Normalmente chiunque si
terrebbe lontano da un posto del genere.
Ma quello che stava
succedendo poteva definirsi in mille modi, tranne che “normale”.
Quindi Andrea puntò con decisione verso lo stagno e, un attimo prima
che una delle cose che lo inseguivano avesse modo di
artigliarlo, vi ci si tuffò dentro.
Per un attimo l'acqua
gelida dello stagno ribollì furiosamente, mentre Andrea andava giù.
L'acqua gli entrò nella
bocca e anche nel naso, e da lì invase i polmoni colpendo,
dall'interno, come una martellata... poi Andrea emise un gemito
soffocato...
...e si svegliò.
Il Pianto di Giuda
(genere drammatico)
Prima
«Che stai facendo?»
«Non lo vedi? Un cazzo…
non sto facendo un cazzo.»
«E che ci devi fare con
quella?»
«Con cosa?»
«La pistola.»
«Ah quella!»
Sorride rigirandosela tra
le mani
«E' una mia cara
amica... se vuoi te la presento...»
«Dalla a me, che è
meglio…»
Lui guarda di nuovo la
pistola. Sembra rifletterci un attimo, poi stringe nuovamente la mano
sull’impugnatura.
«Naaaa... mi sa che la
tengo ancora un po' qui con me.»
«Dammela» ripeto «prima
che qualcuno si faccia male.»
«E perché? Tanto lo
sapevamo tutti e due fin dall’inizio che doveva andare a finire
così…»
«E chi lo dice? Andiamo,
dipende solo da noi…»
«Noi?»
«Da te... dipende solo
da te, cazzo... Simon!»
«Appunto.»
Adesso
Stavo sognando.
Non ricordo esattamente
cosa, ma si trattava di un bel sogno, almeno a giudicare dalla
sensazione che mi è rimasta appiccicata addosso.
Non mi capita spesso di
fare sogni piacevoli.
In genere sogno Simon. A
volte ha lo stesso sorriso di superiorità del cazzo che gli ho visto
l’ultima volta che ci siamo incontrati, altre volte gli manca metà
della testa, ma sorride lo stesso con quell’aria un po’
provocatoria di chi ha sempre il controllo della situazione, ha
previsto ogni cosa e sa che tutto andrà esattamente come aveva
stabilito.
Stronzo che non era
altro.
Questa notte no però. Mi
ha lasciato in pace, e stavo facendo un bel sogno… fino a quando la
luce non è venuta a svegliarmi, con quel suo tocco prepotente e
imperioso, disperdendo le ombre che così gentilmente erano venute a
tenermi compagnia in quel pozzo scuro che sono io.
Ho cercato di resisterle,
per qualche minuto, tenendo ostinatamente gli occhi chiusi, ma sapevo
benissimo che era inutile. Come sempre, alla fine, avrebbe vinto lei.
Così mi sono alzato,
imprecando a mezza voce ed ho permesso al mio sguardo di vagare
intorno, infastidito…
Odio la luce del giorno.
E’ così… indiscreta.
Non le si può nascondere
nulla, arriva dappertutto, e io, invece, ho troppe cose da
nascondere. Lo sguardo ogni giorno un po’ più stanco. I muscoli
ogni giorno un po’ più flaccidi, segnati dal tempo e dalla mia
incuria. I capelli che stanno cominciando ad ingrigirsi… la
bottiglia di birra sotto il letto. Troppe cose da nascondere…
Ma a lei cosa importa?
Lei deve fare il suo
maledetto dovere, tutti i santissimi giorni che Dio mette in terra.
E’ precisa, lei… puntuale. Arriva con l’alba, e se ne va al
tramonto.
Mai una volta che mi
sorprenda facendo qualcosa di diverso.
Pensa solo a fare il suo
lavoro, lei, sempre. E mi ricorda, ogni volta, che io dovrei fare il
mio.
Vada a farsi fottere!Mago
Una Sorella è pur sempre una Sorella
(genere fantasy umoristico)
Una delle cose che
ricordo più chiaramente del periodo passato all'Accademia delle Arti
Magiche Riunite, fu il corso di specializzazione in alchimia tenuto
da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero.
Ricordo che arrivò in
classe con quella sua aria un po' truce, quell'aria di superiorità
della nobiltà napoletana del 1700. Ci guardò uno per uno per uno e
poi disse: «Adesso che avete imparato quelle tre o quattro
formulette magiche del corso di base è
molto probabile che vi sentiate speciali, potenti,
invincibili... beh ho una notizia da darvi: non lo siete. Voi
siete...» ci guardò di nuovo, sfoggiando un sorriso che ci fece
rimpiangere l'aria truce, «...poco più che dei patetici giocolieri
che fanno complicatissimi esercizi con sfere di cristallo piene di
altofuoco. E non importa quanto crediate di essere bravi, prima o poi
ne farete cadere una... è inevitabile. Succede tutti... anche a me.
E' così che son morto. Quindi, la prima lezione che voglio darvi è
più che altro un consiglio che farete bene a tenere sempre a mente:
volate basso, ragazzi. Volate sempre molto basso! In questo modo,
quando cadrete, vi farete un po' meno male... forse...»
In generale il corso di
alchimia si rivelò di una noia mortale, ma quel primo avvertimento
no. Quello è stato la base su cui ho edificato tutta la mia carriera
di mago.
Volare basso... sempre.
Ora, riconsiderando tutto
quello che è successo nelle ultime settimane, e il fatto che mi sto
avviando verso il secondo girone infernale, per discutere con Minosse
le condizioni del rilascio di mia sorella, direi che più basso di
così non si poteva proprio volare... ma probabilmente non
è a questo che si riferiva il principe di Sansevero.
Comunque, ormai è tardi
per tornare indietro.
Sopra di me, quelli delle
Logge Luminose mi danno la caccia per aver infranto il patto di
neutralità.
Sotto di me, nei Decumani
Demoniaci, hanno sequestrato mia sorella e intendono condannarla per
l'eternità...
Considerando che l'unico
responsabile di tutto questo casino sono io, spetta a me porvi
rimedio, in un modo o nell'altro.
«Ancora non ci credo che
siamo finiti all'inferno...» si lamentò il mio amico Daniele
scuotendo il capo.
«Già» risposi.
«E adesso... che si fa?»
Restai un attimo in
silenzio, poi parlai cercando di assumere un tono convincente:
«Adesso andiamo da quel gran cornuto di Minosse e gli facciamo un
culo a tarallo!»