sabato 31 ottobre 2015

Una parola al giorno (o quasi): PAROLE

Le parole sono gratis.
Forse è per questo che nella vita e nei social abbondano e trabordano.
Fiumi impetuosi di parole buttate senza criterio, sparate affrettatamente senza che, dietro, ci sia un pensiero, una volontà di comunicare davvero.
La questione, alla fine, è tutta lì. Perché, alcuni ne saranno sorpresi, ma le parole non hanno un’esistenza autonoma. Non sono autosufficienti. La loro esistenza dovrebbe avere una funzione e quella funzione dovrebbe essere comunicare qualcosa e per voler comunicare qualcosa sarebbe auspicabile che le parole fossero l’espressione di un pensiero più o meno compiuto e che quel pensiero fosse effettivamente un Pensiero e non l’equivalente di una flatulenza prodotta dalle sinapsi cerebrali.
Forse, se le parole avessero un prezzo, si sarebbe portati a pensare, prima di spararle tutt’intorno un po’ a cazzo, ma le parole sono gratis… questo è il problema.

Faccio un paio di esempi banalissimi.

ESEMPIO 1
Amazon Answer.
Quel servizio di domande e risposte per cui, se sto per comprare un articolo su amazon, posso chiedere delucidazioni ai clienti che lo hanno acquistato prima di me.
Poniamo il caso che io stia valutando l’opportunità di comprare un lettore mp3, ma tra le specifiche tecniche non siano elencati tutti i formati supportati, posso accedere al servizio di Amazon e chiedere agli altri utenti: “Sapete dirmi se legge anche i flac?”

E’ quasi matetematico che il primo a rispondere sarà l’utente UNGOBONGO pronto a dire:
“Non lo so, perché io ascolto solo mp3”.
Grazie per la sollecitudine UNGOBONGO, ma mi chiedo: se non lo sai, cosa cazzo hai risposto a fare? Di che utilità può essermi la tua risposta? Non potevi, per esempio, dedicarti a un’attività più produttiva tipo la lobotobia prefrontale che, tra l’altro, non posso escludere a priori ti sia già stata praticata?
Il dramma è che UNGOBONGO non è l’unico. Ci sono orde di UNGOBONGHI pronti a rispondere, tra l’altro cose tipo: “non lo so mi è appena arrivato, devo ancora aprire la scatola…” o “L’ho regalato a mio nipote, quindi non lo so”.

ESEMPIO 2
Forum di fotografia.

Ho scattato delle foto a mio figlio che faceva mountain bike, ma ho avuto problemi nella messa a fuoco. Poiché non sono un fotografo esperto chiedo consiglio come impostare l’af e gli altri parametri per ottenere risultati migliori.


Il fratello di UNGOBONGO, che si chiama CAZZOPARLO, mi risponderà:
“Il problema non è tanto l’autofocus, af-c va bene, e i tempi di scatto che hai usato sono adeguati, ma per il futuro, cerca soggetti più interessanti…
Ora, mio caro CAZZOPARLO, io lo so che tu probabilmente sei un fotografo scafatissimo e super professionale che, se non deve fotografare Valentino Rossi che prende a calci Márquez, non si scomoda neanche a uscire di casa. Le tue foto saranno anche bellissime e forse, se mi avessi dato consigli sulla composizione, per quanto non richiesti, li avrei apprezzati. Ma il soggetto in questo caso è mio figlio, perché non devo partecipare a una mostra fotografica e per me, ti sorprenderà saperlo, mio figlio è un soggetto interessante, quindi spiegami, a cosa dovrebbe servirmi il tuo consiglio?

(apro una parentesi dedicata agli aspiranti fotografi): CAZZOPARLO, se avesse voluto aiutarmi, avrebbe potuto dirmi che, a volte, soprattutto quando ci sono molti elementi di disturbo, è consigliabile usare l'af-c a punto singolo, inseguendo il soggetto, perché con l'af-c dinamico a 9 o a 21 punti c'è il rischio che l'af non centri il soggetto)

In entrambi i casi parliamo di parole inutili. Buttate lì tanto per dar fiato alle trombe e, in questo caso, ai polpastrelli.  Parole che sono perfettamente esemplificative di questa società multimediale  in cui non importa se non hai un cazzo da dire, basta che parli, perché esserci è quello che conta. Nel primo caso assistiamo alla totale assenza di pensiero, nel secondo alla presenza di un pensiero invasivo e presuntuoso, in cui il CAZZOPARLO di turno, generalmente frustrato e in cerca di gloria e autocelebrazione, deve dimostrare di essere migliore di te o, quanto meno, che tu sei una pippa abissale.


Quindi, niente, mi chiedevo… non è che possiamo mettere un prezzo alle parole?

giovedì 29 ottobre 2015

Una parola al giorno (o quasi): NOSTALGIA

Quando ero piccolo mio padre mi portava a tagliare i capelli dal suo barbiere.
Era una sorta di rito iniziatico maschile riservato a noi due, senza la presenza di donne, mogli o mamme che fossero.
Benché abitassimo al Vomero, papà continuava imperterrito ad andare da Gigino, che si trovava a Mergellina. Cambiare per uno più vicino era un concetto che non lo sfiorava minimamente perché Gigino era il suo barbiere da sempre e credo che mio padre lo avrebbe considerato un atto contro natura. E poi, forse, tornare a Mergellina lo faceva sentire vicino alle proprie origini, chi lo sa?
Gigino era un uomo d’altri tempi. Uno che aveva fatto la guerra. Uno che badava solo a tagliare i capelli, senza troppi fronzoli.
Me lo ricordo coi suoi capelli grigi sempre impeccabili e l’aria un po’ austera, ma sempre sorridente.
Paragonato a molti dei barbieri di oggi, Gigino diventa una figura estremamente sobria e carismatica. Era uno che usava solo forbici e pettine e non le macchinette, i trimmer e altre diavolerie moderne. Lui non stava lì a venderti questo o quello sciampo grandioso, quella lozione di marca, quel gel fantasmagorico. Mica era un venditore o un rappresentante di cosmetici! Lui era un barbiere: tagliava e basta.
E tra una forbiciata e l’altra chiacchierava con mio padre e si raccontavano delle loro vite, dei ricordi di ragazzi e di altre cose che, all’epoca, non potevo capire.
Non so. Fatte le dovute proporzioni e rapportandoci al mondo calcistico, potremmo dire che Gigino stava ai barbieri moderni, così come Kempes sta a Beckham. Tanto per dire.
Gigino era uno semplice, senza fronzoli. Venendo dalla guerra e da anni duri, in cui bisognava arrangiarsi, in un modo o  nell’altro era diventato uno che non badava tanto alle apparenze quanto alla sostanza.
Era una generazione che è un po’ scomparsa, almeno qui in Italia. Gente che faceva il necessario con quello che aveva a disposizione, senza star troppo a  riflettere sul perché e il percome.
L’esemplificazione di questo modo di vivere sta tutta nella cura che escogitò per i miei capelli grassi.
Nel passaggio da fanciullezza ad adolescenza, infatti, i miei capelli mutarono improvvisamente trasformandosi in una specie di foresta sebacea e, ovviamente, mio padre si rivolse a Gigino.
Gigino ci pensò un attimo, e poi gli disse di usare il LIP (un detersivo in polvere per capi delicati), opportunamente diluito.
Papà non discusse. Eseguì.

Che vi devo dire?  Mio padre era un tipo strano, gli piaceva spiazzare le persone e credo che trovasse tutto molto divertente.  Secondo me, per lui, vedere le reazioni stralunate di amici e parenti quando spiegava con ostentata naturalezza quale fosse la cura per i miei capelli grassi, costituiva un momento così impagabile da far passare in secondo piano il fatto che, forse, lavarmi i capelli con un detersivo, potesse essere una gran stronzata.
Io all’epoca non capivo una ceppa e mi facevo ‘sti sciampi assurdi senza protestare. Quindi siamo andati avanti così per un annetto o due, fino a che il buonsenso non ci ha suggerito di tornare a rimedi più consoni.
Miracolosamente non sono diventato calvo. Ma da allora devo farmi lo sciampo tutti i giorni, altrimenti i miei capelli diventano inguardabili.
Non so se sia colpa di Gigino. Probabilmente sì, almeno in parte, però non riesco ad avercela con lui. Mi manca il mondo che rappresentava. Un mondo semplice, forse un po’ sprovveduto, anche superficiale, ma genuino, che ormai non c’è più. E anche se, da piccolo, andare  fino a Mergellina per tagliarmi i capelli con mio padre mi sembrava una gran rottura di palle, adesso quei momenti mi mancano. Mi mancano quelle chiacchierate interminabili tra Gigino e mio padre. E mi manca lui, ovviamente.

Il Lip no, però. Di quello non sento proprio la mancanza.

martedì 6 ottobre 2015

Una parola al giorno (o quasi): INTIMITA'

SARA: "Che cos'hai?"
PAOLO: "Niente"

Sara lo guarda in silenzio, non sembra convinta.

SARA: "Sicuro?"
PAOLO (a disagio): "Non mi va di parlarne..."
SARA: "perché?"
PAOLO: "Cerca di capire, ci... ci sono sono cose che non si possono dire..."
SARA: "Neanche a me?"

Paolo esita.

PAOLO: "Neanche a te..."

Sara resta in silenzio e cerca di metabolizzare quelle parole. Cerca di dare un senso a quel silenzio, a quella negazione di contatto che non riesce ad accettare.

SARA: "Neanche su facebook?"

Paolo si blocca colpito. Riflette, profondamente, Poi scuote il capo sofferto.

PAOLO: "Neanche su facebook"

Sara indietreggia sconvolta, mentre Paolo annuisce devastato da quella affermazione che, in qualche modo, è una sorpresa anche per lui.

PAOLO (a bassa voce, lacerato): neanche su facebook...