domenica 4 marzo 2018

Una parola al giorno (o quasi): Scienza


Era l’anno del Signore 1780 quando il famoso naturalista e botanico inglese Sir Joseph Banks  e il suo riverito e stimato collega svedese Daniel Charles Solander raggiunsero le White Mountains della California e, dopo essersi faticosamente inerpicati lungo un pendio scosceso che aveva costretto l’inglese a rivedere e rinfoltire il proprio bagaglio di imprecazioni, erano giunti a cospetto di quello che i selvaggi della zona chiamavano “il grande vecchio”.
Sir Joseph Banks restò
immobile, in contemplazione del gigantesco Pino che, con la sua mole, non poteva che incutere in qualunque essere umano un senso di reverenziale soggezione.
“Prodigioso!” esclamò ammirato dopo alcuni minuti.
“Direi che si tratta di un fantastico esemplare di pinus longaeva” disse Solander, desideroso di dimostrare al collega - e rivale - la propria preparazione, “e a giudicare dalla mole dovrebbe avere circa 4710 anni!” aggiunse con la voce incrinata dall’emozione.
Banks lo incenerì con lo sguardo, poi lo finì con un sorriso sarcastico.
“Certo che ne avete di fantasia, mio buon amico…” disse girando intorno al possente albero e studiandone attentamente la circonferenza.
Solander lo seguì con uno sguardo distaccato che non riusciva a nascondere la profonda stizza e attese.
Banks face rapidamente qualche calcolo mentale, infine sputò la cifra: “Sono 4490, non un anno di più!”
Solander scoppiò in una risata tanto forzata quanto eccessivamente rumorosa che si propagò imperiosamente attraverso la vallata sottostante.
“Sono 4710!” ribadì.
“4490!”
I due si fronteggiarono a muso duro, prima argomentando in modo rigorosamente scientifico, poi tirando in ballo considerazioni del tutto pretestuose e, infine, passando a imbarazzanti considerazioni sulle reciproche famiglie e, in particolar modo, sulle attitudini e le prestazioni sessuali delle rispettive genitrici.
“Va bene, a questo punto non c’è che una cosa da fare!” esclamò Banks facendosi paonazzo e mettendo minacciosamente mano a un’ascia “brutto svedese di merda!”
“L’hai voluto tu!” replicò Solander, che non vedeva l’ora di far rimangiare a quel fottuto inglese tutta la sua spocchia, armandosi a sua volta.
I due sbuffarono digrignando i denti, poi sollevarono le asce, e colpirono con inaudita violenza l’imponente fusto del “grande vecchio”, ognuno dal proprio lato.
Erano così furibondi che impiegarono un tempo relativamente breve per abbattere l’albero e, ansimanti e sudati, si avvicinarono ansiosi alla base del tronco, orrendamente mutilata.
Senza neanche guardarsi i due cominciarono a contare gli anelli. Poi si guardarono allibiti.
“Sono 4600 tondi tondi” balbettò l’inglese.
“Parità!” sussurrò ancora ansante lo svedese.
“Forse prima mi sono fatto prendere dalla foga e me ne dispiaccio…” aggiunse Banks porgendo la mano al collega.
Solander gliela strinse con un sorriso imbarazzato.
“E così questo bestione ha 4600 anni!”
Banks si riscosse. “Daniel, si rende conto di cosa vuol dire? Con 4600 anni questo è senza ombra di dubbio l’albero più antico esistente al mondo!”
Lo svedese annuì solennemente, poi guardò il corto e martoriato ceppo che spuntava dal terreno.
“O meglio, era…” corresse.
“Ehm già… era”.

giovedì 1 febbraio 2018

Radiohead - Street Spirit (Fade Out)




Premesso che io, ai Radiohead, non ci voglio solo bene, ma li adoro proprio, ci sono certi momenti, ascoltando i loro pezzi, che mi viene voglia di andare da Tom Yorke, mettergli una mano sulla spalla, e dirgli: 
"Tom, ma ch'è stato? 
Tom, nun fa' accussì che qualsiasi cosa, in un modo o nell'altro, la risolviamo... sei uno in gamba, c'hai tanti fan che ti vogliono bene... 
Tom, dai...
Tom...
...e fammelo un sorriso, su...

Tom... dai...

Tom?

We... 


(fade out)

venerdì 19 gennaio 2018

Severija - Zu Asche, Zu Staub (Psycho Nikoros) – (il potere della musica)





Babylon Berlin è una serie tedesca (anzi, la serie tedesca, visto che
al momento risulta essere la più costosa che sia mai stata prodotta in Germania)
di cui, sinceramente, non mi fregava un beneamato accidente.
Non che ci sia qualcosa di sbagliato in essa. Semplicemente, in questo
momento, non è il tipo di storia di cui ho bisogno: gialli, misteri, complotti e
ispettori tormentati mi hanno un po’ stufato .
Poi mi sono imbattuto nella canzone che chiude il primo episodio e, da
quel momento, non ho avuto scelta.
Zu Asche, zu Staub, interpretata in modo magistrale dall’attrice
lituana Severija Janusauskaite (il cui unico evidente difetto è quello di avere
un nome impronunciabile) è la canzone perfetta nel posto giusto e, durante il
suo ascolto, si verifica un tale fenomeno di empatizzazione
con la serie e con i suoi personaggi che non dà scampo.
In un primo momento mi sono ragionevolmente convinto che nelle note che
compongono questa melodia sia racchiuso un antico e perfido sortilegio germanico
che provoca assuefazione, ma, in realtà la spiegazione è molto più semplice.
Nella musica e nelle parole di questa canzone si percepisce tutto il dramma di un popolo
appena uscito dall’orrore della prima guerra mondiale che cerca disperatamente
rifugio in un effimero divertimento quasi… doloroso, e che, mentre annega la
passata angoscia in alcol, sesso e musica, si sta dirigendo, inconsapevolmente,
verso un nuovo orrore ancor più grande.


In questa tragica e sublime messinscena - alla quale va una menzione
speciale anche per la suggestiva ricostruzione dello storico Club Berlinese
Efti Moka - si crea quella magia che risucchia l’impotente spettatore e che lo
lega indissolubilmente alla serie, scena dopo scena, episodio dopo episodio.
Da sceneggiatore, quando assisto alla creazione di una sinergia così perfetta tra storia, musica e immagini, non posso che essere ammirato e leggermente invidioso, da spettatore godo come una mangusta... nei prossimi giorni cercherò di essere solo spettatore :-)

sabato 13 gennaio 2018

Futura Memoria

John T. J. Albraw era, a detta di tutti, una persona speciale. Chiunque avesse fatto la sua conoscenza gli riconosceva una enorme sensibilità, un fine intelletto e una profondità di pensiero non comuni.
John T.J. Albraw, naturalmente, era consapevole del proprio valore, ma si guardava bene dall’ostentarlo in cerca di facili consensi ed anzi, essendo una persona realmente speciale, riusciva ad esserlo senza risultare fastidioso o saccente, ma al contrario, riusciva ad essere un solido punto di riferimento per tutti, sempre pronto a donare piccole fiammate del suo ingegno e della sua profondità di pensiero, ma con garbo e delicatezza, senza invadenza o, peggio ancora, sterile narcisismo.
Eppure T.J. aveva un problema.
Essendo conscio del proprio valore, ed avviandosi verso la vecchiaia, si era reso conto di avere una grossa responsabilità: lasciare qualcosa ai posteri, a futura memoria. Un’ultima frase, in punto di morte, che potesse chiudere in bellezza la sua vita. Una frase degna di essere la sua ultima frase.
Il problema non era di facile soluzione, e per venirne a capo T.J. si chiuse nel proprio studiolo per quasi 20 giorni a riflettere, elaborare, sintetizzare e, finalmente, una domenica di luglio, col sole che giocava a nascondino attraverso le persiane della finestra, T.J. trovò la frase giusta. Quella che potremmo definire la “frase perfetta”. In essa l’anziano uomo di pensiero era riuscito a condensare una vita, mettendo un pizzico di ironia, una minima dose di autocompiacimento, un po’ di saggezza e tanta di quella profondità curiosa e illuminante che aveva caratterizzato il suo modo di essere e di relazionarsi alla vita.
Sollevato e felice di aver raggiunto lo scopo superando le sue più rosee aspettative, T.J. Albraw invitò a cena figli e nipoti per consegnare il proprio lascito, ma, fatalmente, proprio durante quella infausta cena, un insidioso bocconcino di pollo gli andò di traverso infilandosi subdolamente nella sua trachea.
In pochi attimi T.J. divenne cianotico e mentre realizzava che, di lì a poco, sarebbe indubbiamente morto per soffocamento, si rese anche conto di non riuscire a parlare.
A terra, con l’universo che lentamente si dissolveva in una nuvola impalpabile di oscurità. T.J. non cercava di respirare ma di parlare, per consegnare ai suoi cari la frase con cui lo avrebbero ricordato. Ma le parole gli si strozzavano in gola, affastellandosi l’una sull’altra senza uscire, nonostante tutti i suoi sforzi.
Carol, la nipote preferita, capì che il nonno cercava di dire qualcosa e, negli ultimi secondi, si protese per cercare di cogliere anche il minimo suono…
Mentre Carol si tirava su, tutti le si strinsero intorno.
“Cos'ha detto qualcosa?” le chiesero con gli occhi lucidi in attesa di conoscere le ultime parole dell'uomo che amavano e rispettavano da sempre.
 “Ha detto… merda”.