PRIMA
VISTA (l’abito non fa il monaco… e neanche il tamarro)
L’altro
ieri ho preso la metropolitana.
Accanto
a me era presente un’amena famigliola calabrese composta da padre, madre e
figli adolescenti, giunta, presumibilmente, in quel di Napoli, per visitarne il
centro storico.
Li
ho guardati distrattamente con istintiva simpatia per l’ansia turistica che,
palesemente, li pervadeva.
Poi
è arrivata la metropolitana.
Mi
sono avvicinato alla porta e sono stato quasi travolto dal compatto manipolo
famigliare che, non curandosi di me, si è scaraventato verso la carrozza della
metro con la determinazione di un commando militare deciso a conquistare un
obiettivo strategico.
Di
fatto sono stato letteralmente spintonato di lato e la mia istintiva simpatia
si è estinta piuttosto rapidamente.
All’interno
del vagone era presente un nutrito raggruppamento di tamarri napoletani doc che,
dalla periferia, si muoveva verso il centro nella consueta transumanza che
caratterizza i giorni di festa (l’altro ieri era il 25 Aprile).
Per
chi non avesse dimestichezza con il tamarro napoletano doc è opportuno
precisare alcune cose:
a) il tamarro napoletano doc non parla, urla.
b) Il tamarro napoletano doc si esprime in una
lingua che non ha nulla a che vedere con l’italiano ma ricorda, semmai, un
misto di gaelico e sanscrito.
c) Il tamarro napoletano doc quando si avventura
in territori che non gli sono familiari si muove sempre in branco e, per darsi
coraggio, accentua tutte le proprie caratteristiche ostentando una volgare
spavalderia e un sagace sarcasmo spesso leggermente grossolano.
d) Il tamarro napoletano doc è, tutto sommato, “nu bravo guaglione”. Ma se vuoi stare
tranquillo è molto meglio quando si trova a qualche chilometro di distanza da
te.
Appena
la famigliola è entrata nel vagone, ha praticamente impattato (fisicamente e
psicologicamente) contro la tribù, e si è immediatamente rannicchiata nel lato
opposto della metro. Le due figlie si sono scambiate silenziose occhiate in cui
si poteva leggere un misto di incredulità e terrore. Poi hanno cominciato a
mormorare.
Non
ho nessuna difficoltà ad ammettere che mi sono avvicinato per ascoltarle.
Sintetizzando
potremmo dire che il succo del loro scambio verteva sul fatto che in nessuna
altra parte dello stivale avevano mai incontrato esemplari umanoidi simili. E
non era inteso come complimento. Credo avessero l’impressione di essere entrate
improvvisamente in uno degli episodi di Gomorra pur non disponendo di un abbonamento
a Sky, e questo suscitava in loro un comprensibile smarrimento.
Più
loro inorridivano, più gli zamperi
intorno a loro diventavano cacofonici (in maniera inversamente proporzionale,
direbbe un colto matematico), prorompendo in esplosioni verbali parzialmente
incomprensibili anche per me.
Li
ho guardati con disappunto e per un attimo, un breve attimo, confesso di
essermi vergognato un po’. Ho pensato: “Ma vedi tu se questi calabresi dovevano
beccare proprio un tale manipolo di incivili, adesso, quando torneranno “in
patria” diranno che i napoletani sono tutti così!”
Poi
mi sono ricordato del modo altrettanto incivile con cui, i timidi turisti, mi
avevano quasi calpestato, e mi sono rincuorato.
In
fondo, i miei concittadini stavano solo socializzando allegramente, in un modo
che poteva ricordare le scimmie urlatrici del Madagascar, è vero, ma pur sempre
innocuo. E comunque, in quel loro latrare divertito e primitivo erano genuini,
mostrandosi esattamente per ciò che erano. Anzi, ostentando orgogliosamente il
peggio di sé, pronti poi a stupirti con qualche slancio di retrograda, ma
pittoresca, umanità partenopea. Mentre i compunti turisti, che scuotevano il capo
colmi di incredula indignazione, celavano dietro quell’aria smarrita l’invasiva
e proterva molestia di cui erano stati
capaci solo pochi minuti prima, davanti alle porte della metro.
Le
apparenze a volte ingannano… e a volte no.