lunedì 3 agosto 2015

Vecchio

Quando, finalmente, Fergus arrivò nell’ampio salone erano già tutti lì.
«Scusate…» mormorò il vecchio.
Gli altri lo ignorarono e lui andò lentamente a prendere posto sulla panca, il più vicino possibile al fuoco, per scaldarsi le ossa.
Pendrag seguì la sua andatura zoppicante col solito misto di compassione e rancore. Non sopportava quell’uomo, perché gli ricordava ogni giorno quanto fosse imbarazzante la vecchiaia.
Spero di morire molto prima, pensò aspettando che il vecchio raggiungesse il suo posto. Molto prima, ma non troppo!
«Non abbiamo tutto il giorno…» disse poi, per incitare il vecchio.
Fergus si fece cadere sulla panca con un gemito, chiuse gli occhi per un attimo, come a voler metabolizzare lo sforzo che gli era costato portare a termine quella lunga camminata. Poi li riaprì e fece un cenno del capo.
Pendrag sospirò maledicendo, tra sé e sé, le tradizioni che imponevano al consiglio la presenza di quel vecchio inutile e si voltò verso il giovane pastore che si trovava al centro della sala in attesa di riferire ciò che aveva scoperto.
«Allora?»
«Sono Kurghal» disse il ragazzo «e si sono accampati sulle colline a ovest del fiume».

L’annuncio fu accolto da un mormorio preoccupato.
«Sei sicuro?» chiese Alfion.
Erano anni che i Kurghal non venivano così a sud e tutti i presenti, in fondo, si stavano augurando che il ragazzo fosse in errore.
«So cosa ho visto…» rispose il giovane mettendosi sulla difensiva.
Alfion scosse il capo incredulo, «forse è solo una banda di esploratori…» azzardò poi speranzoso.
«Ho contato più di 100 tende…» rispose il pastore.
Pendrag strinse i denti mentre una morsa gelida gli stringeva lo stomaco.
Cento tende voleva dire una banda di guerra al completo e un tale numero di uomini si muoveva solo per razziare. Non sarebbero mai tornati indietro a mani vuote.
«Se sono una banda non possiamo opporci…»
Alfion annuì. «A Roverslide hanno bruciato tutto…»
Kehndron smise di tormentarsi le mani per un attimo, «dobbiamo sottometterci».
Anche Elmes crollò il capo in segno di resa: «non abbiamo scelta…»
Fergus cercò di fermare per un attimo il tremolio del capo ciondolante, non guardò gli altri, guardò solo Pendrag.
«C’è sempre una scelta…»
«Non dire assurdità Fergus! Stiamo parlando di Kurghal! Una banda al completo! Noi non siamo in grado di affrontarli…»
Fergus incassò la testa nelle spalle. Erano anni che era abituato a sentirsi dare dell’imbecille. Soprattutto da quel giovane gigante arrogante.
Elmes si alzò in piedi. Era imponente, con le spalle larghe e la testa massiccia ben piantata sul collo taurino. Eppure sembrava un fuscello se paragonato a Pendrag.
«Suppongo spetti a me andare da loro…»
Nessuno lo contraddisse. Il fabbro era la figura più importante del villaggio. A lui spettavano oneri e onori.
«Gli dirò che il nostro Hillfort non opporrà resistenza, che apriremo i cancelli e che… potranno prendere ciò che vogliono…»
Gli altri si guardarono smarriti. Sapevano cos’avrebbero fatto i Kurghal. Ma sapevano anche che non c’era scelta. Se si fossero opposti sarebbero stati uccisi tutti.
Fergus scosse il capo.
Odiava la propria vecchiaia almeno quanto Pendrag. Odiava il non riuscire a muoversi con l’agilità di un tempo. Odiava i dolori nelle ossa. I denti marci e il sangue nelle orine. Ma, soprattutto, odiava quel senso di ottundimento che gli confondeva le parole nella testa. Se non fosse stato per quella maledetta vecchiaia avrebbe preso la parola e avrebbe detto a quegli idioti del consiglio che quando aveva fatto il mercenario, sembravano passati quasi mille anni da allora, era stato a Meridyan, e aveva visto…
Aveva visto quando i Kurghan erano venuti dal mare, con le loro navi agili e allungate.
Aveva visto quando avevano sbaragliato l’esercito di Re Alfred e quando avevano cinto d’assedio la città. E aveva visto il consiglio cittadino arrendersi e aprire le porte.
Aveva visto la vergogna negli occhi degli uomini di Merydian, mentre i Kurghan violentavano le loro donne e si impossessavano delle loro provviste.
Aveva visto la loro umiliazione, mentre i Kurghan ripartivano carichi di bottino, ridendo dei vigliacchi che non avevano osato combattere.
Quando le navi erano salpate, pochi giorni dopo, Meridyan era una città morta, anche se erano ancora tutti vivi.
E’ questo che volete?! - Avrebbe chiesto - volete morire dentro?
Era sicuro che, se fosse riuscito a trovare le parole giuste, anche quei patetici vigliacchi del consiglio avrebbero capito che arrendersi non era una soluzione.
Il problema era che le parole si perdevano lungo la strada che dal cervello portava alla bocca… e alla fine gli restava solo un vago senso di tutto quello che avrebbe voluto dire.
«C’è morte e morte» biascicò.
Pendrag si voltò di scatto verso di lui.
«Cosa?»
«C’è… morte e morte…» ribadì Fergus.
«E questo cosa vuol dire?!»
Fergus si protese verso le parole. E quelle sfuggirono miserevolmente come sempre, lasciandogli la bocca vuota.
Si limitò a guardare torvo Pendrag, mentre il tremolio della testa ricominciava.
«Tu dovresti saperlo, sei un guerriero!»
«Vecchio imbecille! C’è una sola morte, ed è quella che ci daranno i Kurghan se cercheremo di combattere… io l’ho visto cosa fanno ai nemici…»
«Già…» mormorò Alfion «tu hai combattuto, nelle marche orientali… Fergus ha ragione, sei un guerriero, forse potresti…»
Pendrag lo interruppe.
«Io potrei cosa?!»
Gli altri restarono in silenzio. Per un attimo solo lo scoppiettìo del fuoco.
«Ho combattuto  è vero… ma non ero solo, c’era l’esercito dei due Tori. C’era Glamesh il guercio a comandare… qui chi dovrebbe combattere con me. Tu?» si protese verso Alfion che fece istintivamente un passo indietro. «O tu?» domandò a bruciapelo a Regis il lungo. «In tutto l’Hillfort ci saranno sì e no cinquanta uomini in grado di reggere una spada, e solo la metà di loro ha una vaga idea di come usarla…»
«Ma abbiamo le palizzate…»
«A Roverslide avevano i fossati, mura di pietra alte quasi sedici piedi… e sono morti».
«Sembri una ragazzina…» biascicò Fergus con rabbia «gnègnègnè!»
Pendrag fu tentato di colpirlo con un pugno.
Contrasse le dita in un gesto convulso. Se avesse portato a segno il colpo  avrebbe senz’altro ucciso il vecchio e, per quanto irritante, Fergus non meritava di finire in quel modo.
Era pur sempre un eroe.
Tutti sapevano che Fergus, ai suoi tempi, era stato un grande guerriero.
Quando Re Thumal aveva suonato i corni, Fergus aveva risposto al richiamo e aveva combattuto nella piana rossa di Argyle contro gli Artigli Neri di Weridos. In vent’anni nessuno aveva osato contrastare la ferocia degli Artigli Neri e i pochi che ci avevano provato erano stati massacrati.
Anche ad Argyle erano sembrati inarrestabili.
I campioni di Re Thumal erano caduti uno ad uno davanti a Orghal, il comandante degli Artigli. Orghal… un gigante vestito di nero e rosso che combatteva senza scudo, falciando gli avversari con il gigantesco spadone a due mani.
Orghal, la morte che cammina!
 Poi, a un tratto, Fergus gli si era scaraventato contro armato della sua ascia.
Spadone contro ascia.
I due avevano combattuto sul versante orientale della collina, mentre gli eserciti si aprivano per far loro spazio.
Orghal sovrastava Fergus di almeno un piede. Era gigantesco. Sembrava una divinità infernale venuta a seminare morte e distruzione tra i comuni mortali. Ma Fergus lo aveva affrontato a viso aperto, e anche quando il gigante gli aveva fracassato il braccio destro, Fergus aveva continuato a combattere nonostante riuscisse a stento  a reggere l’ascia con il braccio sinistro.
Alla fine Orghal lo aveva disarmato, aveva lasciato cadere lo spadone nel fango e lo aveva stretto in una morsa mortale fratturandogli anche l’altro braccio. Pronto a stritolare l’uomo che aveva osato affrontarlo senza paura.
Fergus aveva urlato di dolore e il gigante nero aveva riso della sua debolezza e della sua stupidità. Aveva riso, sprezzante, inarcandosi all’indietro, e in quel momento Fergus lo aveva azzannato appena al di sopra della gorgiera, strappandogli via la trachea.
Orghal era morto soffocato dal suo stesso sangue, guardando per un ultima volta incredulo, lo spietato avversario dalle braccia fratturate che masticava quella massa fibrosa e cartilaginea che un tempo aveva fatto parte della sua gola e, quel giorno, Fergus era diventato una leggenda.
Ma l’immortalità non rendeva immuni dalla vecchiaia.
Fergus vide la rabbia negli occhi di Pendrag e lo vide dischiudere a fatica la mano.
«Allora ce l’hai…» disse.
«Cosa?» gli chiese il gigante.
«Le palle…»
Pendrag gli voltò le spalle e si rivolse a Kenhdrom.
«Domani ti accompagnerò a parlamentare».
«La legge della spada…» mormorò Fergus con voce strozzata che sembrava provenire quasi dall’aldilà.
Pendrag si immobilizzò.
La legge della spada? Pensò.
Fergus annuì compiaciuto per essere finalmente riuscito a ricordarsi quelle parole.
«La Legge della Spada!» confermò.
Elmes guardò Pendrag incerto.
«Che vuol dire?»
Il guerriero scosse il capo.
«Niente, è solo un vecchio rimbambito…»
«Diglielo!» lo sfidò Fergus. «Diglielo, se hai le palle…»
«E’… è inutile» protestò Pendrag «anche se accettassero io non sono in grado…»
«Si può sapere di cosa state parlando?» domandò Kenhdrom.
Pendrang sospirò rabbiosamente.
Perché mi stai facendo questo vecchio? Cos’è, un modo per vendicarti di me?
«L’unica legge che accettano i Kurghal, è quella della spada. Se un guerriero sfida il loro campione, questi non può sottrarsi… sì ma è inutile. Il loro campione sarà un maestro della spada, anche se accettasse la mia sfida non riuscirei mai a batterlo!»
«Ma se ci riuscissi?» domandò Elmes.
«Io non…»
«Cosa succederebbe se tu riuscissi a battere il loro campione?» insisté il fabbro.
«Dovrebbero ritirarsi…» ammise Pendrag.
Fergus sorrise.
Maledetto sdentato di merda! Pensò il gigantesco guerriero, poi fece girare lo sguardo posandolo sui membri del consiglio «Sì, ma io non vincerò… non contro un maestro di spada…»
«Potresti… provare…» sussurrò Alfion.
«Le sorti di un duello non sono mai certe…» aggiunse Elmes «in fondo, se quando era giovane Fergus non avesse combattuto, oggi saremmo tutti schiavi di Weridos».
«E perché non provi tu allora?» ribatte Pendrag rabbioso.
Sapeva cosa stava succedendo. Quei quattro cacasotto avevano trovato la cosa più pericolosa che potesse essere presentata al consiglio: la speranza, ed ora vi si aggrappavano con le unghie e con i denti, anche se questo voleva dire mandare al macello uno di loro.
«Io andrei, se sapessi combattere» disse Alfion «ma non ho mai impugnato una spada in vita mia. Tu però sì…»
Pendrag scosse il capo.
«Non potete costringermi…»
Elmes lo guardò implorante. «Ho una figlia di quattordici anni e una di dodici anni e mezzo… Lemal e Ghia… tu le conosci…»
Pendrag annuì.
«Tu sai cosa le faranno…»
Pendrag ebbe una fugace visione delle due ragazzine, così come le aveva viste quel mattino, mentre correvano tra le oche, in riva al torrente, ridendo spensierate.
Sospirò ancora.
«Domani porteremo la nostra sfida…» sussurrò e gli parve quasi che quelle parole risuonassero nel silenzio come un’elegia funebre.

I Kurghal si erano disposti in semicerchio.
Erano tutti guerrieri solidi, ma non particolarmente alti. Del resto i Kurghal erano noti per la loro letale efficienza, per la velocità e per la tecnica dei loro spadaccini. Non per la forza in sé.
Pendrag era più alto del loro più alto guerriero, ma sapeva che questo non voleva dire niente. Infatti, quello che avanzò per affrontarlo, era un guerriero dalla muscolatura allungata, quasi esile se paragonata alla sua.
Il Kurghal squadrò l’avversario e sorrise. Poi si slacciò la mantella striata, sguainò la lunga spada dalla lama leggermente curva e imbracciò con la sinistra il piccolo rotellino da pugno che tra i maestri di spada Kurghal sostituiva i più voluminosi scudi da battaglia.
Pendrag lo vide avanzare e metterglisi di fronte con aria quasi annoiata, assumendo quella che poteva vagamente sembrare una posizione di guardia, senza alcuna altra cerimonia.
Lui era pronto.
Pendrag sospirò chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di ritirarsi adesso che la sfida era stata lanciata.
Alle sue spalle c’era quasi tutto il villaggio in ansiosa attesa. Su una panca Fergus lo seguiva attentamente con lo sguardo avido.
Si erano incrociati, poco prima, lungo il sentiero che portava alla piana del duello.
Fergus arrancava, come sempre. Lo sguardo perso nel vuoto, e Pendrag gli aveva chiesto perché lo avesse condannato a morte.
Fergus non aveva risposto. Si era limitato a sorridere.
Vecchio maledetto!
Condannato a morte da un vecchio rimbambito ormai inutile!
Pendrag sganciò il mantello, che non indossava da almeno due anni, ma che aveva rispolverato per l’occasione, per darsi un tono più minaccioso. Imbracciò il grosso scudo decorato col simbolo degli Aironi, che gli era stato donato dallo stesso Glamesh il guercio, per essersi distinto sul campo, e sfoderò lo spadone.
La tradizione voleva che intonasse le parole di sfida, battendo il piatto della lama contro lo scudo del Kurghan, per poi girargli intorno due volte. Avrebbe dovuto tracciare una linea nel terreno e aspettare che l’altro la varcasse dimostrando di aver accettato la sfida.
Ma il Kurghal lo guardava tra l’annoiato e l’impaziente e, a onor del vero, anche Pendrag aveva voglia di cominciare al più presto. La paura lo stava uccidendo. Così si limitò a mettersi in guardia.
Se devo morire, tanto vale non perdere tempo.
Appena risuonò il gong, il Kurghal guizzò in avanti facendo balenare la propria lama in un veloce fendente trasversale che per poco non cavò un occhio a Pendrag.
Solo una disperata torsione del busto lo salvò, di un soffio.
Il Kurghal sorrise e sputò nel terreno. Poi attaccò di nuovo, un po’ più lentamente, alternando finte e affondi improvvisi.
Pendrag parò come meglio poteva.
Sapeva che sarebbe stato il Kurghal a fare il duello.
Sapeva che avrebbe dovuto difendersi aspettando il momento giusto per contrattaccare.
Solo che non riusciva a contrattaccare. Ogni volta che pensava di avere una possibilità, all’improvviso partiva una nuova sequenza di attacchi che lo costringeva ad altre disperate parate.
Il Kurghal lo ferì alla spalla e alla coscia, lievemente, e poi quasi lo sbudellò con un colpo assurdo dal basso verso l’alto che Pendrag riuscì a bloccare solo parzialmente, grazie allo scudo.
Sapeva che i maestri Kurghal erano veloci, ma fino a quel momento non aveva mai immaginato che potessero essere così veloci. Adesso lo stava scoprendo nel modo peggiore.
«Hai sbagliato a prendere una spada così grossa…» lo derise il Kurgahl rompendo il silenzio. «Non sono le dimensioni che contano… non lo sapevi?»
Pendrag deviò un altro attacco e cercò finalmente di colpire l’avversario mulinando lo spadone che sibilò innocuo nell’aria.
Perché quel maledetto vecchio mi ha mandato a morire? Cosa gli ho fatto? pensò confusamente.
L’altra cosa che pensò, subito dopo, fu che si era scoperto, andando a vuoto, e che il Kurghal ne avrebbe approfittato. Già sentiva il morso della sua lama affondargli nel fianco. Quindi continuò a mulinare disperatamente lo spadone, sferzando l’aria, per cercare di tenerlo a distanza.
Per un attimo fu consapevole della sua immagine, goffa e spaventata, che scacciava le mosche, sotto lo sguardo divertito degli invasori e quello terrorizzato degli uomini del villaggio.
Che cosa stavano pensando di lui? Che era solo un pagliaccio?
Ma almeno sono un pagliaccio ancora vivo! Si disse, notando che la manovra, per quanto scoordinata, gli aveva regalato una manciata di tempo.
D’altro canto il Kurghan non aveva fretta. Sapeva di avere in pugno le sorti del duello. Bastava aspettare il momento giusto. Non aveva senso correre rischi inutili.
Pendrag aveva saputo fin dall’inizio di avere una sola possibilità.
Il suo avversario era un maestro di spada. Un abile combattente abituato a quel tipo di duelli, veloce e dotato di una tecnica che lui non poteva neanche sognarsi.
Pendrag era solo forte. Molto forte.
Nelle battaglie in cui aveva combattuto la forza era tutto. Non c’era spazio per le sottigliezze. Non c’era modo di sfoggiare tecniche raffinate.
Dovevi avanzare e colpire. Spezzare, squarciare, devastare.
E in questo Pendrag era bravo.
Adesso le cose erano molto diverse. Ma lui sapeva che ci sarebbe stato un momento, un unico infinitesimale momento, nel corso del combattimento, in cui avrebbe avuto una possibilità. E che se non l’avesse colta al volo sarebbe morto.
Paradossalmente, in questo, gli era stata d’insegnamento proprio la storia di Fergus. Anche lui, a suo tempo, aveva avuto una sola possibilità contro Orghal.
Quando combatti con un avversario che non ha punti deboli, l’unico modo per vincere consiste nell’essere sconfitti. Non c’è altra scelta. Perché è nel momento della tua sconfitta che lui diventa vulnerabile.
L’unico problema consisteva nel riuscire a sopravvivere fino a quell’attimo.
Pendrag si stava affannando per cercare di restare vivo e stava conservando la sua arma segreta per quel momento. Ma cominciava a stancarsi.
Il sangue colava da varie ferite. La vista cominciava ad annebbiarsi rendendo ancora più difficile distinguere i già confusi movimenti del Kurghan.
Non c’era più tempo da perdere.
Così decise che non aveva senso rimandare oltre e si proiettò in avanti seguendo una delle antiche configurazioni tramandate dalla scuola di Lynn Cerrig. L’unica che conoscesse: la configurazione del serpente.
La configurazione prevedeva una serie di improvvisi attacchi, partendo da una posizione di guardia bassa.
Era chiamata così perché riproduceva, in qualche modo, gli attacchi di un cobra.
Richiedeva una tecnica mista di taglio e punta in cui Pendrag non si esercitava da anni. Sapeva che l’esecuzione non sarebbe stata impeccabile, ma era il meglio che poteva fare.
Speriamo che basti.
Non bastò.
Il Kurghan parò tutti gli attacchi e mandò Pendrag a incespicare senza fiato, con un nuovo taglio sul bicipite.
Pendrag barcollò senza fiato guardando l’avversario negli occhi a mandorla. Questi ghignò e venne avanti , fece una finta alla testa, una al corpo, girò su sé stesso e colpì seguendo una traiettoria del tutto inaspettata dal lato opposto, verso il collo indifeso del gigante.
La prima volta che il guercio aveva selezionato gli uomini per l’attacco alla breccia di Andor, aveva squadrato Pendrag con sufficienza. Era grosso, è vero, ma di uomini grossi lui ne aveva molti. Uno in più o in meno, non avrebbe fatto nessuna differenza.
Poi lo aveva visto allenarsi e aveva detto una sola cosa, prima di sceglierlo per il suo reparto.
«Sei veloce…» aveva detto. Solo quello, nient’altro.
Pendrag era veloce. Non come il Kurghan certo, ma per uno della sua stazza era… quasi un fulmine. Uno di quei fulmini che cadono una sola volta, all’improvviso, nel cielo ancora sereno, impreparato al loro arrivo.
La lama del Kurghan calò. E Pendrag parò all’ultimo istante.
Era un colpo sferrato con tutta la forza per decapitarlo. Ma anche la parata di Pendrag fu effettuata con tutta la forza di cui disponeva. Le lame impattarano con un cozzo di metallo quasi assordante. E la forza del colpo fu tale che per un brevissimo istante il Kurghan sentì le dita intorpidirsi sull’elsa della propria spada.
Pendrag intravide lo stupore sul suo volto. Poi si scaraventò in avanti come un cinghiale impazzito e colpì l’avversario con una poderosa spallata che lo prese in pieno petto mandandolo a rotolare nel terreno.
Il Kurghan era un maestro spadaccino, non era un novellino. Non restò a terra ma rotolò subito in ginocchio e, benché devastato dall’urto, sollevò il braccio pronto a parare il colpo successivo. Ma Pendrag era veloce… ed era già sopra di lui. La sua lama calò dall’alto e il braccio del Kurghan cadde nella sabbia mentre lui sollevava inutilmente il moncherino ancora attaccato alla spalla.
Il secondo colpo lo decapitò.
Squarciare, squassare e decapitare... questo lo so fare.
Pendrag restò immobile guardando quasi incredulo il corpo scomposto dell’altro, nel terreno insanguinato. Poi si voltò lentamente e tornò verso l’Hillfort lasciandosi tutto alle spalle, anche il mantello.
Avrebbe dovuto sentirsi esaltato. Invece era solo terribilmente sollevato… e stanco.
Camminando incrociò un’altra volta Fergus, che lo guardava con occhi insolitamente vivi. Era come se, dopo anni di torpore, si fosse svegliata qualcosa dentro di lui e un fuoco bruciasse vivido nel suo sguardo.
«Tu lo sapevi…» mormorò Pendrag.
Fergus non rispose, ma sorrise.
Pendrag riprese a camminare stancamente verso casa affiancato da Kehndrom.
Dopo qualche passo si accorse che Alfion ed Elmes avevano raggiunto Fergus e lo stavano aiutando a compiere la faticosa camminata di ritorno con una reverenza mai vista prima.
Kehndron annuì con approvazione.
«Quel vecchio dannato… ha salvato il villaggio» commentò.
Ha salvato il villaggio? Lui?

I Kurghal stavano portando via il cadavere del loro campione quando furono raggiunti da un suono strano, simile a un gracchiare convulso. 
Si guardarono incerti, senza capire, poi si resero conto che si trattava di Pendrag, quasi piegato in due, scosso dalle risate.


fine