mercoledì 19 marzo 2014

Una parola al giorno (o quasi): PROSPETTIVE



La prima cosa che ricordo, di quando arrivai ad Harlan… sono le colline decapitate.
Ed erano uno spettacolo così assurdo, così impensabile, che restai imbambolato a fissarle senza riuscire a capire.
Un vecchio dalla faccia scavata come un canyon, nel vedere quella mia espressione confusa, sorrise e mi disse: So cosa stai pensando ragazzo, è come se l’immensa mano di Dio, reggendo coltello, le avesse scalpate per prendersi un trofeo da portare lassù in cielo o giù all’inferno, a seconda di dove viva quel dannato. Solo che non è stato dio a decapitare quei monti… - aggiunse con ghigno sdentato - ma le compagnie minerarie ed il loro trofeo non sono le cime delle colline, ma il carbone.
Fu così che imparai che se nasci ad Harlan hai una sola possibilità per sopravvivere: fare il minatore. In ogni famiglia di Harlan ce n’è o ce n’è stato uno. Ogni famiglia, lì, ha pagato col sangue quel carbone.
La seconda cosa che mi colpì, quando arrivai ad Harlan… fu lo sguardo delle persone: quelli che vivono ad Harlan hanno lo sguardo spento di chi non crede più nel futuro, eppure, in quello sguardo senza speranza, c’è la luce determinata di chi ha deciso che scaverà con le unghie e con i denti in quelle fottute miniere, e sputerà sangue e tossirà carbone, ma resterà aggrappato a quella vita, per quanto possa essere una vita di merda, fino a che sarà in grado di respirare.
È gente dura quella. Gente che ha imparato cosa vuol dire strisciare nelle viscere della terra e risalire con la pelle impastata di sudore e polvere di carbone… col respiro che è quasi un rantolo e gli occhi che bruciano. Con le braccia e le gambe così stanche che hai appena la forza di darti una sciacquata e cadere sul letto per poi ricominciare tutto daccapo, il giorno dopo.
Ma cazzo, quella è la loro vita e loro ci restano aggrappati, giorno dopo giorno, fino a che da quel letto non si alzano più.
La terza cosa che non dimenticherò mai più, di quando arrivai ad Harlan… è il cimitero dei minatori. E come se quella stessa mano gigantesca di Dio, dopo aver decapitato le montagne, avesse deciso di restituire in qualche modo al mondo, ciò di cui l’aveva privato. E quegli alberi che adesso non crescono più sulle colline… sono diventati una distesa di croci e di lapidi, alla periferia di Harlan.
Ce ne dovrebbero essere molte di più – mi disse un uomo, notando la mia espressione – ma una delle concessioni che ci fa, questa vita, è che in molti abbiamo il privilegio di scavarci la fossa con le nostre mani. In fondo è proprio quello che facciamo mentre estraiamo il carbone… ci seppelliamo, giorno dopo giorno, un po’ più a fondo.
Poi cominciò a ridere. Una risata profonda, rauca… mista a tosse e polvere, che sembrava risuonare come i rintocchi di una campana che suona a lutto. Una risata che ancora sento nelle mie orecchie.
Quel giorno, io che potevo,  lasciai Harlan, per sempre.
Ma qualcosa di me è rimasta lì, insieme a quegli uomini.

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