domenica 18 maggio 2008

Winter - Tori Amos



Era inverno, ricordo, quando te ne andasti... La notte prima ero andata a dormire sotto coperte di lana pesante mentre il vento, fuori, urlava silenziosamente la sua rabbia. Un vento cattivo, che arrivava addosso con prepotenza, schiaffeggiando i volti, tagliando la pelle là dove riusciva ad insinuarsi. Ma che, ingenuamente, credevo di poter chiudere fuori dalle finestre, appena al di là dei vetri appannati. In modo da non esserne toccata. Era inverno, quell’inverno. E la neve era caduta per tutta la notte, senza sosta, mentre io dormivo sognando i miei sogni. E al mattino, quando ero scivolata giù dal letto per raggiungere quel grande tavolo di legno che avevamo in cucina, avevo scoperto che il mondo era cambiato, trasformandosi in una immensa distesa immacolata. Quell’inverno piovoso e umido, che fino al giorno prima aveva sussurrato solo parole tristi, adesso era diventato un inverno bianco e immobile, come sanno esserlo solo gli inverni delle fiabe. Un inverno terso e silenzioso, baciato da un sole pigro e giallo, da un cielo limpido e luminoso, e dal volo di uccelli lontani. Un mondo di panna e di ovatta e di splendenti riflessi bianchi che giocavano con l’orizzonte, vestendosi qua e là di abeti e di allegri comignoli. E il freddo neanche si sentiva, lì fuori, tanto era perfetto, quell’inverno. Così ti avevo chiesto di portarmi fuori a giocare. E tu avevi sorriso con aria condiscendente, mi avevi preso per mano, ed avevi detto solo una parola: "andiamo". Era inverno e noi giocavamo a tirarci palle di neve, e a rincorrere le nostre impronte in complicati disegni che raccontavano la nostra allegria. Ed i tuoi occhi ridevano, quando mi guardavi. Era inverno ed ogni mattina, quando mi svegliavo, il mio primo pensiero era assicurarmi che l’inverno non se ne fosse già andato. Che nessuno l’avesse toccato e fosse ancora lì, per me, e per te. E ricordo ancora che stavamo facendo un grande pupazzo di neve dalla sagoma buffa quando mi resi conto che qualcosa si stava spezzando nel tuo sguardo e che quegli occhi così dolci non sorridevano più. Era inverno, e cominciava a far freddo, quando mi dicesti che dovevi andare via e che poi, un giorno, io avrei capito. Eravamo tu, io ed il grosso pupazzo di neve. Stavamo tutti zitti. Poi ti chiesi se dovevi andar via… per sempre, o saresti tornato, prima o poi. E tu ritrovasti appena l’ombra di un sorriso, e mi dicesti che non dovevo preoccuparmi perchè niente, mai, è davvero per sempre. Era inverno, quando mi lasciasti queste ultime parole, l’ombra di un sorriso e il leggero tocco di una carezza, prima di andar via. E ricordo che ti allontanasti, con ampi passi, lenti, come i rintocchi di una campana, lasciando impronte profonde, che questa volta, non raccontavano nessun gioco e nessuna allegria. Era inverno ed il sole stava cominciando a calare, quando mi lasciasti sola, ad aspettare. E da quel giorno è proprio quel che feci… aspettare. Ogni giorno… tutto il giorno, dalla mattina alla sera, con ogni tempo, con ogni fibra del mio amore… io, il buffo pupazzo di neve, e l’inverno. Ad aspettare. E poi anche l’inverno andò via… ed il pupazzo con lui. E rimasi sola. Una triste e cocciuta bambina, e la sua voglia di non darsi per vinta. L’inverno si era sciolto. Il sole era venuto a reclamare prati e fiori, ed alberi da frutta... e cinguettii di uccelli. Tutto tornava alla vita, intorno a me, lasciandomi del tutto indifferente, perché l’inverno era rimasto dentro di me. E il tempo cominciò a dilatarsi in una lunga attesa fatta di stagioni che seguivano le stagioni. E l’inverno tornava a raccontarmi di te, ogni anno. E ogni anno mi trovava lì, a quell’angolo di strada, ammantato di neve. E ogni anno sapeva essere un po’ più gelido. E penetrava un po’ più in profondità, scavandosi una strada verso il mio cuore… passando per i polmoni e togliendomi il fiato. Era inverno, fuori e dentro di me, non so neanch’io quanti anni dopo la tua partenza, quando capii che non saresti tornato… e fu allora che mi ammalai. Ma restai lì, a tossire la mia disperata voglia di scoprire che non era così. Che non era vero, non mi avevi abbandonato. Che, nonostante il mio cuore ormai fosse consapevole del contrario, saresti tornato da me. Era inverno, papà, quando mi lasciasti a morire nella neve. Un inverno così bianco e luminoso da indurmi a pensare, con irrazionale incoerenza, che era assurdo morire così, circondati da ovatta e panna montata… Era inverno, e mi seppellirono non lontano dal nostro pupazzo di neve, e così, non ho mai smesso di aspettarti, capisci? E sono ancora lì forse. E d’inverno, quando cade la neve, puoi quasi vedermi, confusa in quel bianco. Ad aspettare, non perché mi manchi, ma perché vorrei chiederti adesso, se potessi: perchè?

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